lunedì 22 giugno 2015

LA SCALINATA DI VIA POZZO - Angela Niosi -

LA SCALINATA DI VIA POZZO
- Angela Niosi -

Era la “mia” scalinata.
Sessanta gradini suddivisi asimmetricamente in cinque rampe. Tre di esse visibili dal basso, bloccate dal muro di protezione della mia casa, le ultime due posizionate a formare un angolo retto.
A custodirla, due muri a secco che portavano, chi la guardava, ad immaginare una piccola galleria a cielo aperto.
Rappresentava una valida scorciatoia per chi doveva raggiungere la parte alta del paese.
Spesso, mi sorprendevo a guardare i passanti che vi si arrampicavano, le loro camminate così diverse.
I giovani la percorrevano di corsa e non avvertivi fatica nei loro fiati,i vecchi procedevano con lentezza, appoggiando una mano sulla gamba, fermandosi a sorreggersi la schiena , lo sguardo in alto a calcolare il resto della salita. Intanto, strappavano qualche filo d’erba che sporgeva, incautamente, dal muro.
Quando arrivavano davanti a casa mia, ne approfittavano per riposarsi, sedendo sul parapetto a recuperare un po’ di forze rosicchiate dalla scalata e raccontavano come fino a poco tempo prima non se li vedevano neanche fare quei maledettissimi “scaluni”…
La discesa era tutta un’altra storia.
Il passo risultava più spedito, i bambini saltavano i gradini due, tre alla volta. Anch’io e mi sembrava di volare, il cuore  che batteva forte al pensiero di sbagliare l’atterraggio e di finire per terra. Spesso succedeva.
Viveva, la scalinata, viveva come un colosso di pietra dal cuore vero e il suo cuore nutriva ciuffetti d’erba, ortiche e timidi fiorellini gialli, i fiori delle rane, dicevano gli anziani, che, periodicamente gli addetti del Comune strappavano senza pietà. Ogni tanto la spazzavano ma, spesso, ero io a farlo perché la consideravo come il prolungamento della mia casa e mi piaceva saperla pulita e felice.
Nei giorni di pioggia, guardavo l’acqua scorrere impetuosa, formando piccole cascate ad ogni gradino e trascinando nella sua corsa residui di spazzatura minuta abbandonata da passanti senza cura.
La scalinata era uno dei luoghi privilegiati dei nostri giochi infantili, testimone silenziosa di pazze corse e di cadute rovinose che lasciavano sulla pietra piccoli pezzi della nostra pelle, nascoste prudentemente alla mamma, per non prendere il resto.
Ma la vera magia della scalinata si compiva nelle sere d’estate quando ci era concesso uscire a giocare.
Io respiravo la scura aria tiepida della sera e mi fermavo, per un attimo, a sentirne i rumori.
Riuscivo a distinguere il verso cupo dei colombi, quello stridulo dei grilli, il gracidare di grosse rane alla ricerca di frescura, mentre attorno al lampione si affollavano farfalle notturne e insetti, ignari prede di “zazzamille” in agguato in coni d’ombra.
Erano i muri della scalinata, con le loro misteriose fessure, ad offrirci lo spettacolo più suggestivo:la ricerca delle lucciole, che chiamavano lanterne del pecoraro.
Si andava a cercarle seguendo tremule lucine intermittenti. I più arditi le catturavano e le trasferivano in piccole scatole attorno alle quali si spintonavano le nostre teste per poter guardare meglio.
Sorpresa, meraviglia, gioia si liberavano dalla nostra bocca, qualche volta ne ho trattenuta una nell’incavo della mia mano, l’altra mano come un coperchio.
No ci stancavamo mai di guardarle ed ammirarle, eleganti fatine della notte, ma sapevamo che dovevamo liberarle ed eccole di nuovo puntini luminosi nell’aria buia.
Le seguivamo con lo sguardo e intanto altri giochi attiravano la nostra attenzione, altri piccoli misteri nascosti nella scalinata.
E poi…l’emozione del giorno delle mie nozze quando, aggrappata al braccio di mio padre, lo strascico del velo da sposa l’ha accarezzata tutta,in una struggente malinconia per il distacco, come un saluto lungo sessanta gradini.




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