giovedì 21 maggio 2015

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DEDICATA AL PAESE DI UCRIA IN ONORE DELLA FESTA DELL’EMIGRANTE 13 – 14 AGOSTO 2012 - Antonina Maria Orifici –

DEDICATA AL PAESE DI UCRIA IN ONORE DELLA FESTA DELL’EMIGRANTE 13 – 14 AGOSTO 2012
- Antonina Maria Orifici –

Emigrante che vai nelle terre lontane,
costretto a lasciare il tuo paese natio,
vai via, lasci gli affetti più cari e non puoi più tornare.
Ci chiedi come mai sei partito
e il tuo cuore risponde:
“Costretto non voglio andare in America.
America terra sperduta, mi trovo qui per lavorare,
anche se il desiderio distrugge me stesso
non posso più tornare”.




FAR PARTE DI UN’ASSOCIAZIONE, PRO E CONTRO - Salvatore Lo Presti –

FAR PARTE DI UN’ASSOCIAZIONE - PRO E CONTRO
- Salvatore Lo Presti –

Far parte di un associazione non è facile. Io sono ancora abbastanza giovane, e anche se il 31 compirò solamente il mio 26° compleanno, ho la fortuna di far parte di due associazioni, la nostra Associazione Gruppo Culturale Ucriese “Ranieri Nicolai”, ed una in cui milito da moltissimi anni (non ricordo nemmeno più da quanti), ovvero l’Associazione Musicale Vincenzo Bellini di Sinagra. In questi anni, di partecipazione attiva sino a circa 4-5 anni fa e di partecipazione saltuaria negli ultimi anni, all’interno di questa associazione (per me una seconda famiglia) ho potuto imparare tantissime cose, non solo dal punto di vista musicale, ma soprattutto dal punto di vista umano, in questi anni grazie all’associazione ho avuto l’opportunità di conoscere persone veramente fantastiche, persone che, chi più chi meno, hanno avuto e hanno un importanza nella mia vita, e tutti con i loro modi di fare e con i loro caratteri sono riusciti ad insegnarmi qualcosa, ovviamente qualcuno di loro nel mio cuore ha un posto sicuramente di rilievo rispetto ad altri, perché ad esempio Giuseppe Mancuso non è solamente il mio direttore artistico o il mio insegnante di musica, ma è anche una delle persone che hanno contribuito alla mia crescità (un secondo padre insomma) e a farmi diventare quello che sono oggi, come anche Salvatore Accordino, che dell’Associazione musicale è il presidente, ma che all’interno dell’associazione è molto ma molto di più, una di quelle persone che quando sono assenti si nota, sia per l’aspetto musicale, sia per l’aspetto umano e che personalmente mi ha insegnato veramente molto, loro 2, con la collaborazione di tutti gli altri, riescono e sono sempre riusciti ad ottenere veramente ottimi risultati. Io sfortunatamente a causa del mio carattere non riesco molto spesso a fargli capire quanto loro siano importanti per me, e quanto gli voglio bene, ma se oggi sono quello che sono molto lo devo anche a loro.
Ma la forza di quest’associazione è proprio l’unione di intenti della maggioranza degli esponenti che la compongono, che con il loro impegno e con le loro proposte riescono ad ottenere risultati a volte anche superiori a quelli che ci si potrebbe aspettare da persone che come lavoro fanno tutt’altro che quello dei musicisti. Io sono veramente fiero di far parte di quest’associazione, soprattutto perché nonostante sia un’associazione che esiste da numerosi anni è in continua evoluzione, infatti ogni anno l’associazione si cimenta in nuovi pezzi e in nuove avventure, e ogni hanno riesce a coinvolgere nuovi componenti (piccoli fratellini e sorelline per me) che nonostante l’età chi più chi meno riescono quasi tutti a sorprendermi e a farmi divertire e ai quali mi piace poter essere d’aiuto quando raramente riesco ad essere presente.
Da quello che ho detto, sembra che sia facilissimo far parte di un associazione, e quindi sembra che io mi stia contraddicendo da solo, visto che ho cominciato questo  pezzo dicendo che far parte di un associazione non lo è. È facile se ti piace ciò che fai.
Perché quando fai parte di un’associazione devi tenere conto che hai preso un impegno, non è semplicemente possedere una tessera che testimonia l’appartenenza a questa o quella associazione, bisogna impegnarsi nelle attività dell’associazione, poi ovviamente è logico che ognuno ha i suoi impegni e che quindi ci sarà qualcuno che per una determinata attività si impegna di più e qualcuno di meno, ma si può trascurarla solo per motivazioni serie, non per noia o menefreghismo altrimenti si dovrebbe evitare di impegnarsi. Insomma far parte di un’associazione significa sacrificare il proprio tempo libero. Anche io non sono proprio l’elemento più attivo in questo momento, ma non poter essere attivi non significa fregarsene, chiedo continuamente informazioni sulle attività che si svolgono e quando posso cerco di partecipare. Altro aspetto da valutare è che sicuramente (e sfortunatamente) all’interno della società in cui un’associazione si sviluppa e in cui cerca di crescere ci sono persone che criticano, e che sono molti avvezzi ai pettegolezzi, e che, non riuscendo nelle loro attività, cercano di distruggere ciò che gli altri fanno o provano a fare.
Ma attenzione, il motto della nostra Associazione è CRESCERE INSIEME PER CRESCERE TUTTI, quindi se vogliamo migliorare,  anche a livello personale, le critiche devono esserci, anzi sono indispensabili, però quelle COSTRUTTIVE, non quelle DISTRUTTIVE.

Quindi amici miei e compagni d’avventura, continuiamo a rimboccarci le maniche, perché è solo con la fatica e con la passione che si raggiungono gli obbiettivi e che si hanno le maggiori soddisfazioni. Le basi per fare bene ci sono sta a noi cercare di continuare a costruire qualcosa di solido e duraturo nel tempo. 







CHIACCHIERANDO DI MALATTIE E NON SOLO………. RICORDANDO IL GEMELLAGGIO 2 - Antonella Algeri -

CHIACCHIERANDO DI MALATTIE E NON SOLO……….
RICORDANDO IL GEMELLAGGIO 2
- Antonella Algeri -

Gemellaggio………ebbene è trascorso un anno!!!
Vogliamo celebrare l’anniversario di questa unione con un “ ricordo” scritto da un Gozzanese, il Dr. Alberto Cravero,  che è stato per 40 anni medico di famiglia di tanti Ucriesi di Gozzano:
“ Ucria è un suggestivo paese situato sulle pendici dei monti Nebrodi ai confini del parco Regionale omonimo. Ha conosciuto momenti di splendore economico nel periodo preindustriale arrivando a  contare oltre 5.000 abitanti alla fine degli anni ’50, quando, per la carenza di lavoro, gran parte degli ucriesi emigrarono in ogni parte del mondo. Alcuni di loro si trasferirono nel paese di Gozzano ove la Bemberg fungeva da richiamo industriale e la rubinetteria si stava vorticosamente affermando. Il lavoro sicuro, come spesso succede, fece da traino facendo superare gli ostacoli psicologici e la “freddezza”, non solo climatica, incontrate. Negli anni agli ucriesi di prima generazione si sono succeduti e sovrapposti gli ucriesi di seconda e terza generazione, assumendo ruoli importanti nel territorio sia a livello imprenditoriale/artigianale, sia come collaboratori nell’amministrazione comunale e nelle commissioni parrocchiali. Nel 1970, quando sostituii mio padre come medico di famiglia nel distretto, mi ritrovai con un numero di ucriesi sempre crescente che mi donarono la stessa fiducia che avevano concesso a lui. Costituirono così per 40
anni quasi il 20% dei miei affezionati pazienti.
Provvidenza vuole che a Gozzano sia stata edificata in un importante snodo stradale la cappella del Crocifisso che ogni anno raccoglie i fedeli del paese per momenti liturgici (ss. Messa e processione) e conviviali ed il patrono della parrocchia di Ucria sia il Cristo della Pietà. Le cose belle non sempre nascono con immediatezza, ma per evidenziarsi sono determinanti volontà ed amore. Amore per la propria terra e per un'unica fede. Così il gemellaggio è stato abbracciato dalle parrocchie e dalle amministrazioni comunali.
Nei giorni 24-27 Ottobre 2014 Piemontesi e Siciliani cittadini Gozzanesi ci siamo recati ad Ucria per ricambiare la visita degli Ucriesi presso il nostro territorio e saldare ulteriormente il gemellaggio fra le due comunità. L’occasione è stata la contemporanea festa della Madonna del Rosario e la fiera annuale del fungo. La programmazione, la logistica ed i contatti sono stati magistralmente ed appassionatamente tenuti da Ucriesi della seconda generazione presenti o legati a Gozzano per precedenti soggiorni. Assente il sindaco Carla Biscuola per recente intervento, l’Amministrazione era rappresentata dal vice sindaco Libera Ricci, dagli assessori Maria Luisa Gregori e Renzo Piletta e dal consigliere Lorena Marietta; la provincia dal consigliere Gianluca Godio; la Comunità pastorale di Gozzano dal parroco don Enzo Sala. Presenti, per conoscere i luoghi dei nonni, il parroco di Gargallo don Oreste Olivo ed il sottoscritto dott Cravero, per 40 anni medico di famiglia, divenuto confidente ed amico di numerosissimi Ucriesi. Sono gli incontri che rendono belle le giornate anche con la pioggia e il vento che ci hanno accompagnato. In effetti non poteva esserci accoglienza più calorosa. All’ingresso del paese brilla la targa stradale che enuncia il gemellaggio, nelle vie del paese manifesti di benvenuto ed, appena scesi dall’autobus, ci viene incontro il sindaco Giuseppe Lembo e gli amministratori con gonfalone e  banda. Dopo i baci,  gli abbracci e le presentazioni siamo stati accolti nella bella chiesa Parrocchiale intitolata al Cristo della pietà da un coro veramente affiatato di bimbi e ragazzi delle scuole. “Sciuri, sciuri” e “vitti ‘na crozza” hanno dato subito un tono gioioso all’incontro. Si sono susseguiti gli interventi ed i saluti del sindaco di Ucria, del vicesindaco di Gozzano, di don Enzo, dell’arciprete don Carmelo parroco di Ucria, di don Olivo ed il mio. Pochi convenevoli di facciata, ma molto patos. E’ stata consegnata una targa ricordo per il sindaco di Gozzano e delle piastrelle confezionate appositamente “per gli amici di Gozzano”. A don Carmelo sono state donate l’icona di san Giuliano ed il libro edito in occasione del 50°anniversario della ordinazione presbiterale di don Carlo Grossini promotore dell’incontro religioso fra le due comunità. Agli amministratori di Ucria prodotti del territorio Novarese. Grande la partecipazione degli ucriesi e dei gozzanesi al pranzo comunitario della serata con canti, danze, musica ed uno straordinario “castrato alla griglia”. La fisarmonica e la verve di don Enzo hanno ulteriormente rallegrato la serata. Per i gozzanesi, alloggiati sul litorale marino di Brolo, il sabato piuttosto uggioso ha riservato la gita al santuario della Madonna di Tindari ed all’importante complesso di scavi archeologici adiacenti con vista mozzafiato sui laghetti e spiagge sottostanti. Di ritorno ad Ucria, visita al complesso museale con proposta di interscambi culturali fra i nostri due territori. Dopo la santa messa prefestiva celebrata da don Olivo che con commozione ha ricordato i suoi avi, ci siamo letteralmente tuffati (pioveva a dirotto) nella sagra del fungo. La disponibilità, la gentilezza, la gratuità, l’ospitalità si sono concretizzate in gesti, assaggi, sorrisi, abbracci, inviti. Funghi ovunque, cous cous, salamelle, arancini e pansotti, torroncini, farinata di fichi d’india e “frittole”, piatto che viene cucinato solo 2 volte all’anno composto da tutte le parti meno nobili del maiale cotte nella sugna. Eccellente! provare per credere. Messa grande la Domenica concelebrata dai 2 parroci con omelia di don Sala improntata sull’amore : noi amati da Dio dobbiamo amarci e divenire amanti. Dopo un breve, ma fantastico, break gastronomico, nel pomeriggio ci siamo uniti alla comunità di Ucria per la tradizionale processione con le statue della Madonna del Rosario e di san Domenico, appositamente anticipata di quasi 2 ore per poter permettere la nostra partecipazione. Il bus ci attendeva e, interrompendo la processione, con tutta la comunità di Ucria riunita, i rappresentanti civili e militari ci siamo scambiati  ringraziamenti, saluti, un arrivederci e qualche lacrima. Un grazie di cuore alle amministrazioni, alle parrocchie e personalmente alla grande gentilezza e pazienza della signora Maria che ci ha dedicato la sera della fiera rimanendo con me e mia moglie, alla straordinaria ospitalità di Enzo al quale debbo la degustazione di un buon bicchiere di vino. Un abbraccio forte ad Antonella, Ina e Mariella. Con il loro amore per la terra natia hanno concretizzato il sogno dei loro genitori.              




PENSIERI: LE DIECI CASE - Rita Palatina -

PENSIERI: LE DIECI CASE
- Rita Palatina -

Non siate una caverna: la vita «da orsi» abbruttisce e impoverisce.
Non siate una palafitta: senza solide fondamenta, è facile venire travolti dalle intemperie della vita. Non siate un bunker antiatomico: chi vive solo «in difesa» non dona e non riceve.
Non siate la casa degli spiriti: superstizione e magia non aiutano a risolvere i problemi.
Non siate un bungalow ridente sul mare: la vita non è una eterna vacanza.
Non siate un garage: una esistenza « parcheggiata» non conduce a nulla.
Non siate una casa-a-schiera costruita in serie: fate emergere i vostri carismi personali e la vostra originalità di coppia.
Non siate un monolocale: se non c'è spazio per gli altri, non si matura.
Non siate una mansarda: chi guarda dall'alto il suo prossimo, non ne vede che la nuca.
Costruite una casa accogliente, ben tenuta e luminosa, con buone antenne per cogliere i messaggi dal Cielo.

Poi affacciatevi al balcone col volto sorridente e tenete aperta la porta del vostro cuore: il Signore ha bisogno di un alloggio ospitale!


SAPEVATE CHE … GIUSEPPE GARIBALDI INDOSSAVA I BLUE JEANS? - Valentina Faranda -

SAPEVATE CHE … GIUSEPPE GARIBALDI INDOSSAVA I BLUE JEANS?
- Valentina Faranda -

Forse starete pensando che argomento sciocco di cui trattare o magari semplicemente chi se ne frega… ma in questo numero ho pensato che il mio articolo doveva necessariamente essere un qualcosa di leggero perché siamo già abbastanza circondati da negatività e pesantezza, curioso perché la curiosità è la linfa vitale per un giornalino e che, ovviamente, avrebbe dovuto informarvi su qualcosa. Ergo, questo mese vi racconterò dei blue jeans.
I blue jeans, i pantaloni che indossiamo tutti i giorni, quelli con cui ci sentiamo comodi (quando li compriamo della taglia giusta e non di una più piccola per comprimere la nostra massa…che tanto non sparisce) quelli che negli anni ’90 del novecento spopolavano tra i giovani e non, perché “andavano di moda”, sono stati inventati niente di meno che nel Medioevo?
L’origine viene ricondotta storicamente nei dintorni della città di Genova, luogo di grande tradizione tessile e grande esportatore fin dagli inizi del medioevo.
Le stoffe utilizzate nella produzione erano di vario genere: lana, seta, lino, cotone o fustagno. Quest’ultimo designava un tessuto di cotone mischiato a lana o a lino.
Nel XV secolo un particolare tipo di fustagno di colore blu, veniva prodotto nella città piemontese di Chieri ed esportato attraverso il porto di Genova. Proprio a questa particolare merce, secondo alcuni studiosi, si riferisce il termine inglese blue-jeans, termine utilizzato fin dal 1567 ( dal francese bleu de Gênes ovvero blu di Genova).
Secondo altre versioni i pratici "calzoni da lavoro" erano cuciti con tela di Nîmes (de nimes e poi denim) di colore indaco ed erano indossati dai marinai genovesi. Nîmes era concorrente di Chieri nella produzione di questo tessuto.
La scoperta dell’oro della California, portò nello stato diversi esploratori e cercatori d’oro. Nel 1853, Levi Strauss aprì a San Francisco un negozio per vendere oggetti utili ai cercatori d'oro. Per rendere questo vestiario ancora più confortevole apportò una serie di modifiche che lo fanno considerare, oggi, il reale inventore dei nostri “moderni” jeans. Uno dei suoi clienti, un sarto di nome Jacob Davis, si unì a lui in quest’avventura e il 20 maggio 1873 idearono il primo jeans denim.
Anche Giuseppe Garibaldi, durante lo sbarco dei mille a Marsala, indossò questo tipo di pantaloni, oggi conservati a Roma presso il Museo centrale del Risorgimento all'interno del Vittoriano.
Alla fine degli anni settanta del XX secolo, con la diffusione del fenomeno del consumismo, si sono moltiplicate le varianti di questo indumento: "a campana" o "zampa di elefante",  “a tubo” o “sigaretta”, a cavallo alto o basso e ne sono prodotti di tutti i colori e con i più svariati tessuti.

Non ho scritto un trattato. Ho solo pensato che sarebbe stato divertente darvi qualche breve notizia sulla lunga e curiosa storia di questo indumento. Una storia che non tutti conoscono e che non è necessario, per la nostra sopravvivenza, sapere ma è un modo come un altro per incuriosirci a qualcosa, per apprendere in più del mondo che ci circonda, della sua storia, di chi lo popola e di chi l’ha fatto prima di noi; è un modo per guardare il mondo come lo fa un bambino che impara ogni giorno cose che non conosce, con quell'entusiasmo e quella meraviglia anche per la scemenza di turno. 



TRADIZIONE DEL PANE FATTO IN CASA: IERI UNA NECESSITÀ-OGGI UNA SPECIALITÀ - Rosalba Paladina -

TRADIZIONE DEL PANE FATTO IN CASA: IERI UNA NECESSITÀ-OGGI UNA SPECIALITÀ
- Rosalba Paladina -

Il Parco Regionale dei Nebrodi, istituito il 4 agosto 1993, è la più grande area naturale protetta della Sicilia: con i suoi 86.000 ettari di superficie, è una delle zone più ricche dal punto di vista di vegetazione e fauna.
I 23 comuni del Parco dei Nebrodi, divise fra le provincie di Messina, Catania ed Enna,offrono una produzione gastronomica molto varia. Specialità della millenaria tradizione contadina dei Nebrodi sono lo produzione d'olio d'oliva, funghi, miele, nocciole, pistacchio, il Suino nero dei Nebrodi e naturalmente l'immancabile "Pane di casa". Insieme alla pasta, il pane di casa è una componente essenziale della dieta dei Nebrodi. Il pane non è solo usato come accompagnamento ai contorni; spesso, una volta condito, costituisce un piatto a sè. Il famoso "Panni cunzatu", un pane tagliato in senso orizzontale, che contiene vari tipi di alimenti, olio, sale, e origano in primis, e poi acciughe, formacci, pomodori secchi e altre verdure. Le ricette del pane fatto in casa variano da paese e paese, ma in tutte sono essenziali alcuni ingredienti: farina di grano duro,in parte mischiata con la farina di grano tenero,sale,acqua e "u ripigghiaturi" ovvero il lievito madre. Ciò che differenzia questo tipo di pane dal pane di produzione industriale,è l'uso di questo tipo di lievito e la cottura nel forno a legna. Il pane veniva fatto in un giorno lavorativo e doveva durare per settimane. Per fare il pane ci vuole forza e passione.
Il lievito madre è conosciuto sotto molti nomi: lievito naturale, lievito acido, pasta acida. In questa zona della Sicilia è detto "ripigghiaturi" o "u crescenti della bedda madri", è un impasto di farina e acqua, acidificato da un complesso di lieviti e batteri. Noi utilizziamo da 10 anni lo stesso lievito, naturalmente rinnovandolo ogni 15 giorni. 
Una volta ottenuti gli ingredienti base,gli altri elementi della ricetta variano da zona a zona anche in funzione del tipo di legno da ardere.
La Maidda, in italiano Madia, è un contenitore ricavato da un unico blocco di legno, di forma rettangolare, con bordi rialzati, in cui viene impastato il pane.
La "scupa du furnu", una scopa fatta di una fibra di disa, conosciuta anche come saracchio, pianta perenne della famiglia delle Graminacee. La scopa di disa bagnata servirà a scopare il forno caldo, per equilibrarne la temperatura.
"Rastreddu", "Zinnofulu" e "Palittuni", sono dei  strumenti per girare legna e brace e per inserire il pane nel forno. Il letto del pane è molto importante: deve avere le coperte necessarie per consentire la lievitazione dei pani che va all'incirca dalle 5 ore nei periodi caldi alle 8 ore dei periodi freddi.   






L’EXPO 2015 - Antonino Algeri -

L’EXPO 2015
- Antonino Algeri - 

In questo periodo, uno degli argomenti di cui si parla tanto è L’Expo 2015, che ci fa riflettere su un importante argomento: la fame nel mondo.
Il cibo che si produce non è più sufficiente a sfamare tutti gli esseri umani, ma di quanto prodotto, più di un terzo viene sprecato, di contro circa un milione di persone patisce la fame e la sete.
E’ necessario trovare nuove strategie, condivise dai vari stati, affinché si possano individuare strumenti nuovi o un miglior sfruttamento della terra per fare fronte a questa necessità.
L’essere umano deve rispettare la natura, non la deve seviziare, ma la deve trattare amorevolmente se vuole da essa trarre vantaggi.
Papa Francesco ha detto” Non vendete nostra Madre Terra” spero che questo appello faccia presa su quegli uomini che, per la loro ingordigia, inquinano le falde acquifere e i terreni agricoli, e spero che si fermino le frodi e le sofisticazioni alimentari dannose alla salute umana.
Per vivere bisogna mangiare, ma bisogna saper mangiare con moderazione scegliendo con criterio gli alimenti, tenendo conto dell’età e del lavoro che ognuno di noi svolge.

In questo ci viene in aiuto la dieta mediterranea che l’americano Keys considera la migliore al mondo e che l’UNESCO il 17 novembre 2010 l’ha elevata a “patrimonio culturale immateriale dell’umanità”.




QUEL CHE RESTA DELLA SERENATA - Mario Nici -

QUEL CHE RESTA DELLA SERENATA
- Mario Nici -

Mi capita ancora, a distanza di un lustro ed in altri luoghi, di sentire lontane nello spazio e nel tempo, ma del tutto nitide, quelle note che si rincorrevano sotto il cielo di Ucria, dal tramonto fino a notte avanzata; in quel tempo le luci fioche ad incandescenza delle strade e dei vicoli, sui radi bracci addossati in ferro battuto dell’ ente nazionale per l’energia elettrica, ti lasciavano ancora vedere le stelle. Splendide, le note e le stelle.
L’amicizia ed il sentimento d’amore erano sempre al centro della scena. Se poi c’era la luna, la scenografia diventava a tratti stregata. La luna era infatti il valore aggiunto, l’elemento romantico per definizione: la luna siciliana, soprattutto, sempre candida nei nostri tersi cieli notturni, bella come una dea, che al solo rivelarsi non poteva che suscitare una muta contemplazione estatica. 
 E’ evidente che di giorno alla luce del sole, portare una serenata non avrebbe avuto alcun senso; perciò si aspettava la notte quale momento magico di silenzioso armonico raccoglimento per tradurre tutte le sensazioni in musica e poesia. I nostri “musicisti” spesso suonavano e cantavano ad orecchio, col solo apporto della musica strumentale eseguita all' impronta. 
Per rintracciare il termine serenata bisogna spingersi fino alla fine del ‘500; esso veniva usato, anche in ambienti colti, come titolo di musiche quasi esclusivamente vocali e, nel ‘600, in composizioni celebrative strumentali e vocali, rivolte come omaggio a persone di riguardo. A partire dalla seconda metà del ‘600, il termine venne utilizzato anche per dar titolo a brani puramente strumentali, presenti anche nella produzione di grandi e celebri compositori ( Mozart, Salieri e in tempi più recenti Brahms). 
Nella tradizione popolare, che è quella dei nostri piccoli paesi e risale fino ai tempi medievali, una serenata era un composizione suonata o cantata come segno ed espressione  d’amore o d’affetto per la persona amata oppure un per amico che meritava d'essere onorato, tipicamente di sera dinanzi una finestra o sotto un balcone. La voce si accompagnava con uno o più strumenti; la fisarmonica, era la regina incontrastata, ed era a sua volta accompagnata quasi sempre da chitarra acustica e mandolino, che con il loro suono gentile e vibrato, risultavano sempre particolarmente adatti a creare un’ atmosfera di grande suggestione. L’incanto dei nostri vicoli discreti, sepolti tra le case affastellate di Caffuti, Valle, Annunziata,  nella magia della sera, si fondeva con la musica e aiutava a rendere finalmente palesi i sentimenti più schietti e reconditi. La cornice era pure essa d'autore, essendo a quei tempi le strade tutte lastricate in pietra grigia più o meno annerita dal tempo, talora con riflessi verderame per il depositarsi di una sottile barba muschiosa verde-vellutata ai lati e sui muri rivolti a settentrione, mentre la campagna attorno  era "così bella verde e, zappata, aveva il colore, sotto l’alba, dei volti bruciati”. 
Ricordi arcaici mi incatenano a quei luoghi. Vagando nella memoria e nei suoi strani meandri mi capita di incontrare volti di un tempo perduto. Nitidi ed immutabili, nel ricordo. Sembra che il tempo non sia passato e la luce tracciata dal susseguirsi dei giorni sia rimasta lì immobile nell’aria e nello spazio fino alla sua fonte solare. Ma se vai nei vicoli deserti, come mi é capitato di recente, respiri oggi solo un vago sentore di umanità, esaltata dai reiterati abbandoni. Al posto del muschio, solo sterpi. Affiorano fantasmi dai muri impastati di calce e argilla, strisciano personaggi d'altri tempi dietro le finestre sconnesse, tra le crepe dei muri scrostati  ed attraverso qualche tetto scoperchiato. Poi ti capita di girare d'angolo ed imboccare una strada più moderna ove il lastricato e le alzate di pietra sono stati colpevolmente sostituiti da un nastro declive di neri mattoncini vulcanici embricati tra due file di case strette ed alte; queste sono state tutte o quasi tutte rifatte, conservando però l'identità elementare originaria, case "di pendio", coi muri in comune, a vani allineati e sovrapposti su uno o due piani, dove il pian terreno "catoio" ha abdicato alla funzione di stalla e fienile, per cedere il posto ad un piccolo anonimo salotto. In questi scorci di moderno il senso di absence è ancora più forte, non più mitigato da alcuna traccia di vita vissuta, sepolta sotto uno strato di intonaco color sabbia e cemento. Case senza tempo, per buona parte disabitate, avvolte da un silenzio assordante, 
Anche qui la musica si è spenta, i suonatori sono andati.            
Oggi è del tutto scomparsa, spazzata dalla rivoluzione digitale, la serenata portata sotto la casa dell’amata come segno di corteggiamento. Né poteva essere diversamente. Nel nostro mondo globalizzato, nel pieno dell’ era di internet e dei social neet work, il modo più semplice per essere a vita deriso sarebbe andare di notte sotto il balcone dell’innamorata a cantare note del tipo: 
"O Lola ch' ai di latti la cammisa / Si bianca e russa comu la cirasa / Quannu t' affacci fai la vucca a risa / Biato cui ti dà lu primu vasu!". 
Questo è , com'é noto, il famoso canto di Turiddu, all' alba del giorno di Pasqua, rivolto a  Lola, sua antica innamorata andata in sposa al carrettiere Alfio. Ed è anche l’ attacco inequivocabile della "Cavalleria rusticana", di Pietro Mascagni: cumpari Turiddu, lo spasimante disperato è nel centro della piazza, con la sguardo all' insù, a mirare la sua bella. Oggi sarebbe, in mancanza di armi da fuoco a portata di mano, prima sepolto sotto un pentolone d’acqua fredda e poi sottoposto a TSO.
Tuttavia se non l’atto in sé, almeno lo spirito andrebbe recuperato. Le serenate, espressione popolare spontanea e genuina del sentimento amoroso, le troviamo negli scritti di numerosi poeti siciliani, da Giovanni Meli ad Antonio Veneziano ed Alessio Di Giovanni, come anche nei lavori o nelle trascrizioni di grandi antropologi, come Giuseppe Pitrè.
Nel nostro piccolo centro hanno resistito fino agli anni 70, poi con l’avanzare del “progresso”, ad un dato momento, queste vecchie care usanze hanno improvvisamente perso il sapore di prima, avviandosi al definitivo tramonto. 
Restano però intatte nella memoria mia e, credo, collettiva, di chi al par mio non si trova più nel verde dei suoi anni. La loro suggestione era grandissima e la loro utilità indiscutibile. Erano difatti i tempi in cui il sentimento amoroso veniva vissuto con pudore, quasi in contumacia. Quelli in cui non erano di certo le discoteche, le balere o i pub o le sezioni sms/WhatsApp/Messenger  degli smart-phone i luoghi della trasgressione, ma lo spiazzale della chiesa Madre,  di giorno ( “seduti sui gradini di una chiesa aspettavamo che finisse messa e uscissero le donne”; Franco Battiato, Prospettiva Nevskij –1980) e le finestre e balconi, di notte, pronti questi a virare in palcoscenici del grande teatro del cuore, sorretti da sguardi, animati da sospiri, mossi da qualche cenno d'intesa o da qualche fiore che poteva essere reciso e lanciato, talvolta attraversati da un biglietto piegato, col rischio che un refolo di vento se lo portasse altrove. Non appena infatti scendevano le ombre e il crepuscolo si approssimava con la notte per mano, le serenate guadagnavano rapidamente i balconi. A rispondere sommessamente al canto ed ai sospiri erano spesso le imposte: ogni loro accenno, anche tardivo, a dischiudersi poteva celare una velata risposta d' amore e ogni spiraglio di luce, che da esse filtrava, essere il segnale di una ragazza in trepida attesa.
Di questo mondo romantico e conviviale è stato da noi incontrastato ed indimenticabile protagonista Antonino Aquilia, al secolo, per tutti u Zu Ninu Finucchieddu. Grande suonatore di fisarmonica, animatore inesauribile, una contagiosa gioia di vivere, uomo di profonda umanità, è stato soprattutto maestro naif di musica, ma anche di vita, per diverse generazioni di giovani e meno giovani. U zu Ninu, la fisarmonica non la suonava soltanto, la sentiva dentro, si muoveva con essa in un  tutt’uno , quasi in un prolungamento dell’anima, oltre gli stili e gli stilemi. Era in realtà profondamente innamorato della sua terra difficile e delle sue tradizioni. Ricordo, ancora oggi, quando mi raccontò, con una vena di nostalgia, nei primi anni ’80 - credo fosse l’estate dell’’82 o ‘83-, seduti su una panchina di Piazza delle Rimembranze (corsi e ricorsi), alcuni aneddoti, episodi vissuti e fatti storici di questo culto amicale  o amoroso, e di come per anni aveva stimolato i futuri sposi suoi amici o amici dei suoi amici ed aveva tantissimo suonato per loro in tante altre ricorrenze (nascite, partenze, ritorni, anniversari),  per rinverdire una tradizione che già allora si andava spegnendo. 
Gli ultimi fuochi si erano avuti tra gli anni cinquanta/sessanta. Poi, con l’avvento della televisione nazionale, ci si cominciò un po’ a  vergognarsi delle tradizioni popolari, del dialetto, come fosse roba passata o addirittura volgare, da chiudere in soffitta e dimenticare, o roba melense da emigranti nostalgici. Un destino analogo lo hanno avuto non solo le nostre tradizioni strettamente locali, ma anche molta della cultura popolare siciliana. Ed è anche socialmente giustificabile e comprensibile che ciò sia avvenuto in un’era ancora non globalizzata, ove le vecchie usanze, la tradizione e il dialetto costituivano una gabbia, arnesi arrugginiti da nascondere, quasi una trappola in territori remoti, da sempre isolati, non ancora calpestati dai sandali di Cristo, dato che questi non era andato mai oltre Eboli. Ci aveva infatti rivelato Carlo Levi fin dal 1945: "come in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli", a debita distanza dai "contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore...”.
Oggi, dopo la sbornia di modernità dell’era televisiva e informatica, appare chiaro che queste tradizioni rappresentano una bellissima integrazione ed un complemento culturale ideale in una società dove con un semplice clic ognuno, da contrada Pirato-Sicily, fino a Perth-WesternAustralia o a Karlsruhe– Baden/Württemberg,  può interagire con il mondo intero.
Ed una opportunità il cui recupero non può essere più rinviato, anche in considerazione del privilegio di avere dei maestri come Gioacchino Cusmano, Sebastiano Cuttone ed altri ottimi musicisti come Nino Crisà, Filippo Lembo, Saro Murabito, solo per citarne alcuni, in grado di interpretare e diffondere la nostra musica popolare in modo sapiente e cortese, restituendo vitalità e prestigio ad un’ antica tradizione.
Di recente, in ricorrenza delle vacanze estive di questi ultimi anni, hanno riproposto tutto il loro repertorio di motivi struggenti, azionando una sorta di acustica macchina del tempo, che ha condotto magicamente i cittadini ucriesi in una Sicilia oggi mille miglia distante, ma tutta da riscoprire.
A differenza dunque del film “Quel che resta del giorno”, che mi permetto di citare solo perché  ha ispirato il titolo di questo mio post, e che è un lungo malinconico flash-back su ciò che è stato e ciò che, forse, avrebbe potuto essere e non é mai stato, dello spirito della Serenata resta molto ed altro ancora può essere recuperato;  e l’entusiasmo ed il sincero apprezzamento che accompagna sempre le estemporanee e disinteressate esecuzioni sia in prima persona sia online (Serenata 2.0) di Gioacchino&Friends rimane tutto intero a testimoniarlo. 






PERCHE’ NON PROGREDIAMO - Achille Baratta –

PERCHE’ NON PROGREDIAMO
- Achille Baratta –

Vi siete chiesti mai perché restiamo chiusi sempre nel nostro orticello, quasi armati per difendere i confini di quel fondo senza confini che si chiama MIO. Si! Difendiamo il MIO che a dirlo con chi fa politica si chiama il NOSTRO, ma che resta sempre quel solito orticello senza acqua che noi teniamo stretto sotto i nostri manti neri per paura perché l’unica vera caratteristica che ci appartiene è il possesso e la crudeltà mentale che mio padre Vincenzo definiva con una sola parola: ignoranza.
Perché non proviamo a domandarci per quel che è possibile riconoscendo agli altri quello che gli spetta e soprattutto interrogandoci su quali sono i motivi che non ci fanno uscire da quel piccolo ristretto campo che la negazione dell’informazione libera come espressione di uscita da quelle barriere culturali che ci facevano portare le nostre pecore alla sera all’ovile, convinti che la giornata fosse finita e che non ci restava altro che andare a dormire per rialzarsi poi l’indomani al sorgere del sole e riportarle a pascolare, probabilmente rubando un pezzo di pascolo al fondo del vicino con la convinzione che poi in definitiva è lui l’unico nostro nemico, alzare gli occhi fuori dal coppola o ancora di più oltre il cappello era vietato ed è vietato perchè si comunica, perché si parla, a che serve? Ma se ognuno di noi raccontasse qualche leggera parentesi del vissuto per denunziare non un fatto ma una mentalità, probabilmente potremmo dire che la fatica, la disponibilità e l’impegno gratuito di un piccolo numero di persone eccezionali serve a qualcosa.
Io mi ritengo di Ucria, per cultura e per famiglia legata alla mia professione, e vi voglio quindi raccontare di come sono riuscito a progettare e dirigere i lavori di quello strano edificio che è stato finanziato “come ambulatorio”.
La cassa del Mezzogiorno, finanziava a pioggia le opere che l’Amministrazione comunale deliberava come prioritarie, ad Ucria dopo la rete idrica e fognante e il campo sportivo avevano scelto di realizzare un ambulatorio ma non mettevano mai in moto nessuna procedura per ottenere il finanziamento.
A pochi mesi dallo storno, quasi estorcendolo riuscivo ad avere l’incarico e il luogo della realizzazione e poi anche il finanziamento e l’opera. Tutte certamente cose belle e di soddisfazione ad eccezione del luogo. Il luogo scelto scelleratamente dalla amministrazione era la chiusura di quel piccolo varco di panorama che restava ma ancora di più era uno sdirrupuni. A niente sono valse le mie dimostrazioni che volevo realizzarlo come ho fatto a Francavilla di Sicilia e nella frazione San Basilio di Galati Mamertino, su un terreno libero e pianeggiante, in modo che l’edificio potesse avere un proprio inquadramento urbanistico che gli potesse dare il respiro che meritano questi edifici che hanno una particolare destinazione sociale e quindi la possibilità di avere un parcheggio e un’area di pertinenza adeguata ma soprattutto la necessità di svilupparsi solo su un piano per evitare non solo limiti delle barriere architettoniche ma anche quelli stessi della funzionalità  e della relativa economia nell’edificazione. Cosi facendo mi costrinsero ad un salto agli ostacoli e non solo con il risultato di avere speso il denaro pubblico nel peggiore dei modi. Ancora dopo tanti decenni non riesco a darmi pace di questa mia supina accettazione ma non si può certamente combattere contro i mulini a vento, e quelli erano veramente mulini, dove l’orticello della cattiva cultura non poteva essere abbattuto dei  suggerimenti di un professionista che doveva invece ringraziare per aver avuto l’incarico di un finanziamento di fatto già stornato per insolvenza di una amministrazione che non amministrava, perché anche la guardia comunale in questo vuoto dei giardini dell’egoismo diceva la sua.
Ma certamente cose di altri tempi perché ora alla riscontrata inconsapevolezza intrecciata con la poltroneria si affiancano gli interessi e in genere gli appalti.

Ora chi legge e lo spero, dirà chistu voli sputari nto piattu unni manciau, ma dite e pensate quello che volete, io sono e resto un professionista che anche a posteriori vuole denunziare che quando di fatto facevi un progetto che non soddisfava facevano finta di ignorarlo per poi nel tempo dare altro incarico a chi regolarmente si appropriava del progetto, non solo accettando l’idea progettuale ma lucrando. Cose che mattunu ai vivi ora che non ci sono più i soldi il campicello del vicino per il pascolo abusivo è sempre più appetitoso specialmente se i consigliori sono di lungo corso.


“U ZU MICU” - Angela Niosi -

“U ZU MICU”
- Angela Niosi -

Lo chiamavo “zu Micu” anche se fra noi non c’era alcun legame di parentela.
Abitava due case dopo la mia, con l’interruzione di una rampa di quella scalinata che,protetta da muri di antiche pietre, si prostrava alla mia casa.
Era piccolo di peso e di statura e trasportava sulle spalle una pesante gobba,simile ad uno zaino. Aveva dei minuscoli,inespressivi occhi color corteccia,una manciata di capelli distribuiti senza ordine e due baffetti che facevano ombra ad una quasi inesistente bocca.
Quando camminava,sembrava portare addosso il peso della sua vita, gli occhi perennemente inchiodati al suolo. Partiva sempre al mattino presto per la campagna, in groppa al suo fedele asino che, a me, sembrava avesse uno sguardo triste e rassegnato. I due avevano finito con l’assomigliarsi.
“Zu Micu” aveva dei piedi piccoli e le mani incurvate per l’uso della falce, con unghie sempre nere di terra, incapaci di accarezzare un viso, almeno così pensavo io.
Tornava dalla campagna all’imbrunire,dondolandosi sull’asino ed emettendo rauchi grugniti per stimolarlo.
E,finalmente, lo sentivo quando,dopo essersi ubriacato,si metteva in balcone e liberava quella voce che,durante il giorno,sembrava non avesse.
Teneva in mano una bottiglia di vino e iniziava a cantare, lo sguardo, per la prima volta in alto…ad inseguire sogni?
Se mi trovavo a passare da sotto il suo balcone mi fermavo,c’era il rischio che mi sputasse addosso, e lo osservavo. Ne avevo paura ma allo stesso tempo mi affascinava.
Per un breve attimo, mi guardava anche lui .
Non mi riconosceva, i suoi occhietti mi scrutavano maliziosi, si toglieva la coppola e mi dedicava un verso, incominciando con “bella signorina”.  
Io ridevo con la mano sulla bocca per essere educata, gli rispondevo qualcosa e scappavo via.
Mostrava una grande concentrazione nel ricordare i versi dei suoi strambi monologhi, rincorreva immagini che vedeva soltanto lui. Ogni tanto, si fermava aggrottava la fronte, balbettava qualcosa, aspettava risposte alle sue domande, impastava parole e vino.
Spesso, si radunava un gruppetto di bambini sotto al suo balcone per assistere allo spettacolo che “zu Micu” offriva gratuitamente. Quelli più sfrontati lo deridevano o gli facevano il verso, mi stupiva il fatto che lui se ne accorgesse e rispondesse loro con lo stesso tono.
“Se  ti ‘ddentu figghiu ‘i …” e allungava le sue mani curve o lanciava un lungo sputo ma era solo un attimo, subito dopo rientrava nel suo mondo e i bambini correvano via ,ridendo sguaiatamente, a cercare un’altra avventura a basso costo.
Una luminosa mattina d’estate mi comunicarono che “zu Micu” era morto nel sonno.
Rimasi male perché pensavo fosse più opportuno che morisse d’inverno quando non c’erano da fare i lavori in campagna ma poi mi dissi che,forse,quello era il momento giusto per riposarsi visto che,d’estate,non lo faceva mai.   



IL TEMPO SCORRE - Carmelina Allia -

IL TEMPO SCORRE
- Carmelina Allia -

Ho avuto modo di avere tra le mani,finalmente,tramite mia cugina Maria Rita Astone, moglie del nostro Sindaco, il mensile "La cruna dell'ago" che dopo tanti anni torna a farci sentire una comunita' che non si rassegna e prova 
a spargere semi di speranza di futuro nei solchi della storia del nostro tanto amato paesello.
Voglio complimentarmi con chi ha avuto coraggio di riprendere una tradizione, augurandoci di perseverare nell'impegno,mantenendo vivo l'entusiasmo iniziale.
E voglio complimentarmi anche per i vari contenuri, innestati nelle nostre radici,con lo sguardo attento alle novità.
Visto poi che "le porte sono aperte", spero ogni tanto poter dare un mio piccolo contributo di pensieri e riflessioni, pertanto vi invio  alcune righe natemi nel cuore nell'estate del 2014, ad Ucria.


  " Il tempo che scorre "

Scorrono i giorni nel fluire della vita,
scorrono in un"altalena di speranze e nostalgie,
impastati di sogni accarezzati,
di traguardi raggiunti e condivisi,
di desideri inespressi, coltivati in fondo al cuore,
di solitudine abitata,
di gioie assaporate in compagnia.
E doni gratuiti ingioiellano
l'avvicendarsi delle stagioni della vita,
fra ricordi intessuti di tenerezza
e ferite rimarginate
dal balsamo della certezza
che Tu, Signore,
ci tieni per mano
nello snodarsi dell'avventura della vita
e sempre ci inviti a camminare
anche a piccoli passi,
su nuovi sentieri.




I MILANISI - Giuseppe Salpietro -

I MILANISI
- Giuseppe Salpietro -



C’era un tempo nel quale le rondini numerose  s’impadronivano del cielo, pur facendo compagnia agli esseri umani direttamente nelle loro case. Nidificavano ovunque, sotto ogni tetto, sotto ogni riparo offerto casualmente dall’uomo, alla conclusione del loro lungo viaggio iniziato con la stagione propizia pare nel sud del Sahara. Il loro volo appariva agli occhi di tutti sicuro, contraddistinto da una rapida successione di curve e cambi di traiettoria alla ricerca costantemente frenetica di insetti da consegnare, dopo una veloce virata, al nido.
Oggi non ce ne sono quasi più, ne arrivano solo pochi stormi di entità numerica modesta, così come sembrano spariti da anni “i milanisi”.
In effetti questi, non arrivavano tutti da Milano dove certamente si trasferì negli anni gran parte della manodopera attiva della popolazione dei Nebrodi, segnata da un continuo stillicidio che ne ha compromesso per sempre le potenziali risorse umane, ma da ogni località del nord industriale dove fu possibile trovare migliori condizioni di vita complessiva. D’altronde, anche mio padre si trasferì a Messina subito dopo il secondo conflitto mondiale per lo stesso motivo, e pure io nato lì, secondo questa accezione larga, a modo mio, sono “milanisi”. Diciamo pure, scarsamente o diversamente “milanisi”.
D’estate, arrivavano per trascorrere le ferie  “i milanisi” e le calde e lunghe serate agostane passavano tra una chiacchierata nella piazza, una “iucata”, un amaro rigorosamente Averna e tanti progetti per il futuro. Benché tanti avessero certamente migliorato il loro tenore di vita, tutti ricchi apparivano già. Dopo tre mesi mutava l’accento, rafforzato e contraddistinto nelle nuove inflessioni da un immancabile intercalare “né” che concludeva o anticipava ogni frase, ma che voleva anche significare: hai capito ??, “chi” fai ??, dove vai ?? dimmi, alzati e “annamu a missa” che è tardi etc., etc,……….; insomma il tutto, con i suoi mille significati, racchiusi in un suono.
Sembrerà strano, ma la prima domanda che dovevano sopportare incontrando gli amici dopo infiniti convenevoli era “ma quannu parti ???”. Domanda che precedeva la solita consequenziale litania sul dispiacere comune per la brevità del tempo a disposizione. Sempre così gli esseri umani, invece di godere la vita nei suo addivenire, si angosciano per quello che accadrà o dovrebbe accadere tra venti giorni.
Al panificio invece del rustico “minnu” o della classica pagnotta di grano duro, chiedevano per i loro palati resi più esigenti ed aggraziati la sconosciuta nordica michetta notoriamente cava all’interno, che naturalmente non trovavano mai.
Anche le loro automobili dovevano essere esagerate in virtù del nuovo rango ed anche per mortificare sul nascere chiunque avesse avuto dubbi sul tempestivo benessere raggiunto. Chi veniva dalla fredda Germania, una sorta di milanese del nord, amava esibire poi “u stezzu cu pilu”, un comodo rivestimento di pelliccia finta (o vera per i più esigenti), che rendeva più piacevole l’impugnatura.
Il nuovo migliore status era poi certificato,  quando il paesano arrivava  accompagnato da una bella “zita” selezionata tra le numerose di evidente razza celtica. Una bella stanga più alta del “braghettone” della porta, capace di suscitare un pizzico di invidiuzza e mal celati appetiti tra i vecchi compagni di combriccola.
Anche i nomi avevano ricevuto drastici mutamenti o smussature per renderli meno sgraziati, meno cacofonici. Carmela era ora Carmen, Nunziata era diventata all’improvviso Tina, Sebastiano s’era tramutato in Seby, Rosaria in Sara, Maria in Mary e così via fino agli immodificabili Tindara (Tinnira) e Filippa che non poteva diventare certo Lippa.
Quanti ne arrivavano tutti assieme, tutti in concomitanza con la chiusura estiva delle fabbriche, in quel periodo storico nel quale  era sconosciuta la vacanza intelligente, come pure la disoccupazione latente.
Nel giro di qualche giorno il paese si ripopolava tutto ed il primo effetto negativo ricadeva sui posteggi. Già, come nella Palermo di Johnny Stecchino il primo problema di Ucria non è la precarietà dell’occupazione, ma il “traffico”. Ogni angolo del Paese,  che ha sviluppato nei secoli un’urbanizzazione fitta come una ragnatela e nel contempo, come se non bastasse, dotata di viuzze strette adatte sovente solo agli equini (i muli erano infatti diffusissimi fino alla metà del secolo scorso), risultava straripante di automobili, specie nelle poche piazzette disponibili.
Ma era niente, se fossero rimaste lì ferme per alcune settimane. Il problema era che si muovevano di brutto.
Passi per il bagno mattutino a Capo d’Orlando, ma al bar perché andare con la macchina?. E già, abitudine radicata che non si perde mai, sia per gli stanziali, che per i forestieri, quella di raggiungere i luoghi di aggregazione in macchina. Bisognerebbe dotare Ucria, spendendo qualche miliardo di euro, di metropolitane efficienti come quelle di Parigi o di funivie avveniristiche come quelle del Monte Bianco per risolvere il problema, ma forse sarebbe meglio farsi semplicemente due salutari passi a piedi.
Normalmente “il milanese” si lamentava che a causa dei notevoli costi affrontati ogni anno per venire in Sicilia, sarebbe risultato più economico organizzarsi diversamente facendo una vacanza in un lontano paese straniero, magari a San Maarten o a Cuba. Non era sempre vero, i vecchiareddi, potendolo, certamente erano ben disponibili a sovvenzionare, a porgere una mano, pur di avere accanto i figli o i nipoti per qualche settimana, rompendo l’incanto della lunga solitudine dei mesi invernali. Ma sempre la stessa tiritera era : “l’anno prossimo vado al mare in Sardegna, mi costa meno, NEH”.
 Questo, fino alla prima domenica successiva alla festività del mezz’agosto, dopodiché, il milanese spariva alle prime luci dell’alba.
Automobili stracariche all’inverosimile di: pumadoru, sasizza, provole, conserve alimentari e di ogni altro ben di Dio, si muovevano in direzione opposta per ridare spazio, nel grigio inverno lombardo o piemontese, alle frenetiche attività ordinarie.
Lì, attendevano come sempre per undici mesi le future lontane ferie, colorando nel loro intimo con accese sfumature i ricordi dei momenti passati nel paese natio, ma  pronti a ridesiderare di essere altrove non appena giunti.
Sparivano e tornavano all’improvviso come le rondini, che dopo avere lasciato i loro nidi, in direzione opposta percorrevano migliaia di chilometri, in un ciclico, incessante viaggio.