domenica 22 febbraio 2015

A BARRACCA

A BARRACCA
- Giuseppe Salpietro -

 La “barracca”, nome non certo bello che istintivamente sembra evocare la precarietà di una struttura provvisoria, un luogo coperto ma cadente, una sorta di tugurio, talmente negativo nel suo significato letterale originario, da fare diventare giallo dalla bile un qualunque esperto di marketing del “food and beverage”.
Nel caso specifico dei diversi esercizi commerciali così denominati, ancora oggi esistenti nel territorio ucriese in grado di esprimere al meglio forti connotazioni di territorialità e genuinità, il nome sembra originariamente riconducibile alla modestia complessiva di quanto offerto al cliente, solo apparentemente lontano dalla osteria dove si bevono pasti alla buona accompagnati da ottimo vino, dalla trattoria che sembra meno popolare nel servizio, o dal ristorante nobilmente discendente dal francese “restaurer” per indicare che in quel luogo si trova ristoro.
Non sembra quindi evocare il ristoro, ma era luogo accogliente e caldo per i numerosi contadini ed allevatori di greggi al pascolo che a sera, non potendo fare ritorno al paese per le necessità del governo degli animali o per procedere già dalle prime luci dell’alba successiva ai lavori preparatori della mietitura, accontentandosi di giacigli di fortuna nelle diverse “casotte” poste tra la località Piano Campo e Floresta, si davano lì convegno per il sonoro chiacchiericcio, assolutamente inconsapevoli delle tendenze modaiole degli anni a venire che avrebbero reso partecipi i loro nipoti e pronipoti al frastuono della movida di Milano e dei suoi Navigli.
In quella vasta area, il forte terreno era prevalentemente coltivato a grano, e certo di giornate lavorative ne necessitavano un’infinità per compiere tutte le pesanti attività manuali che precedevano l’agognata mietitura di fine giugno o la semina a “spaglio” del freddo novembre.
Nelle “barracche” di un tempo, talvolta quello che oggi appare ordinario, non era contemplato. Per capire il senso della conosciuta normalità diffusa che appartiene al recente, bisognerebbe avvertire, anche solo per qualche istante, la privazione di un comunissimo ausilio. In tal senso, sarebbe sufficiente provare a staccare la corrente elettrica di casa per alcuni minuti ricreando sensazioni di intimo smarrimento. In sostanza, la corrente elettrica a monte del paese di Ucria, si fermava appena fuori le sue porte e le contrade erano solo punteggiate quà e là dalla luce fioca e “ballerina” dei lumi a petrolio. Ma l’ingegno nelle barracche come sempre suppliva alle carenze, e per superare l’oggettivo impedimento della inesistente elettrificazione che a sera faceva calare un buio pesto da “tagghiari cu cuteddu”, si posizionavano nei pochi ambienti disponibili delle bombole di gas dotate di un tubo metallico montato verticalmente sulla manopola di erogazione, alla cui sommità una garza incandescente, riparata dal venticello mediante vetri opachi, diffondeva quel minimo di luce che favoriva: le bevute di vino allungato dalla “gazzosa”, la ricerca degli accordi dei suonatori di strumenti tradizionali, il raro “schiticchio”, l’immancabile gioco delle carte e talvolta gli “strepiti”.
E che dire dell’optional che una di esse, quella del caro Sebastiano Maturi detto “ u Rizzu ”, offriva come dote unica. Tale, infatti, era il refrigerio fornito dall’acqua corrente della “biviratura” dove le bottiglie di birra Messina, di aranciata e chinotto Giuffrida e di gassosa Cucinotta, disordinatamente adagiate in una bagnarola di metallo riposta in una sorta di incavo a forma di pozzetto, si ghiacciavano naturalmente allo scorrere incessante dell’acqua fredda per il piacere dei poco esigenti ospiti.
Anche Ucria ebbe per alcuni anni la propria fabbrica di bevande gassate. Essa era ubicata nei locali dell’ex cinema di via Padre Bernardino ed i suoi prodotti erano chiamati “Monte Castello”, anticipando la voglia di identità territoriale in un chiaro richiamo evocativo al luogo di produzione.
L’abbeveratoio però, giustamente, non serviva soltanto a raffreddare le “gazzose”. Numerosi erano gli armenti che ad orario pre-determinato, come fossero orologi svizzeri, lì giungevano per dissetarsi dopo ore di arsura patita nei vicini pascoli facendo abbassare in un sol colpo a meno della metà il livello del prezioso liquido raccolto per l’incessante flusso. Immancabilmente, i ruminanti certificavano il loro passaggio, lasciando sul piccolo piazzale in cemento grezzo un “ricordo” certamente non gradito all’operoso oste-gestore e alla sua infaticabile consorte Sara. Grandi come torte nuziali a più ripiani, gli escrementi erano disseminate in ogni angolo in “quantità industriale”.
 Era come se il luogo favorisse il rilascio silenzioso, a cui puntualmente seguiva un sommario lavoro di ripristino delle condizioni antecedenti il passaggio, mediante energiche e “mirate” secchiate di acqua graziosamente risparmiata dalle assetate bestie.
Uno degli attrattori di clientela dal palato esigente era “u campanaru”, abilmente posto in bella mostra sia nelle barracche che avevano effettuato la macellazione di recente, che in tutte le macellerie al tempo numerose del paese. Erano le interiora, esposte in un tutt’uno anatomicamente ancora integro, eccetto il budellame: polmoni, fegato, milza, rognoni … ; ma non mancava, in alternativa, l’esposizione fiera come fossero trofeo di caccia, di altre parti rigonfie opportunamente agganciate anch’esse ad un resistente uncino posizionato in prossimità dell’ingresso dei locali di vendita e lasciate ondeggiare come fossero palloncini al vento. Vera festa culinaria che attirava quali commensali: api grandi quanto elicotteri ultraleggeri, mosche dal colore verdastro ed insetti vari.
Nelle barracche, talvolta si macellava autonomamente quanto necessario per i  previsti consumi degli ospiti e la carne del malcapitato “castro” veniva poi riposta, non ancora sezionata, in un capiente vano ricavato nello spesso muro riparato da una “moschiera” ad ante verticali che lo rendeva inaccessibile ai voraci sciami di insetti. Prima della “rustuta” però, non poteva mancare la quasi quotidiana visita del veterinario, annunciata da qualche colpetto rauco di clacson tipico delle vecchie utilitarie, che ne certificava lesto la salubrità disseminandola di timbri di colore blu apposti con energia in ogni singola parte.
E’ normale oggi pensare a pietanze elaborate idonee a soddisfare le mutate esigenze dei clienti, ma il menù fino a qualche anno addietro era rigorosamente unico: giardiniera, salame e provola (per i più esigenti), pane di casa e castrato arrosto.
Chiedere altro sarebbe apparso come una violazione delle autentiche vocazioni locali, offensivo e provocatorio per il gestore.
Nuvole di fumo si alzavano dense e profumate al “salmoriglio” a tutto guadagno della sapiente cottura, delle papille gustative che sollecitate procuravano una irrefrenabile deglutizione a chiaro sintomo di un atteso appagamento e dell’odore del vestiario che ne restava irrimediabilmente impregnato.
Un’arte anche quella. Rimarrà mistero perché la medesima carne, se cotta fuori dal comprensorio, pur utilizzando i medesimi profumati ingredienti nel preparare “u sammurigghiu”, non abbia mai avuto lo stesso sapore di quella cotta e consumata in loco.
E poi, come non fidarsi muti rispetto alla scritta vergata da un estroso e poliedrico artista locale, che campeggiava come motto all’ingresso della “barracca du Rizzu”:
“Se vuoi vivere lieto e sano, vieni a mangiare da Bastiano”.
Ed allora fidiamoci, anche le “barracche” hanno grandemente contribuito a creare quell’irresistibile fascino territoriale che ha fatto conoscere il territorio nebroideo ai tanti. Senza polemica, realisticamente a “panza” ha convinto più dell’arte, della cultura, delle tradizioni popolari, della memoria.

D'altronde, volendo fare una inopportuna, ma efficace similitudine, tira più … che un carro di buoi.



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