domenica 22 febbraio 2015

COM’ERA VERDE LA MIA VALLE

COM’ERA VERDE LA MIA VALLE
- Achille Baratta –
Nel periodo estivo la mia famiglia si spostava a Pirrione, un casolato nel verde il cui magazzino delle nocciole aveva prima ospitato il baco da seta con le stalle sottostanti e l’immancabile trappeto.
Per raggiungere la nostra casa di campagna occorreva percorre un sentiero che si dipartiva dal ponte fauci attraverso la proprietà Scaglione fino alle parte bassa della nostra proprietà denominata “u zotto”.
Il viottolo aveva “u malupassu”, che costituiva in un restringimento della montagna che poi calava a picco sul torrente Rudaffi e li specialmente di notte si rischiava la vita.
Dopo tutti noccioleti di un colore verde intenso che ti abbagliava e ti costringeva a pensare che tu viaggiatore dell’ignoto ti fossi immerso nell’unico luogo possibile della tua esistenza e che su ad esso non ci fosse alternativa. Queste sensazioni di contrizioni ambientali si allentava quando ci si riposava alla fontanella sita nella parte alta du zotto e poi svaniva alla vista del caseggiato contraddistinto da un pergolato di uva fragola.
La vallata continuava contraddistinguendola con la denominazione “ a vaddi” e poi ancora più a monte “a costi u ladru”, di fronte “a vigna”  sotto Rudaffi dove il terreno era argilloso, diverso da quello di Pirrione che era sabbioso.
D’estate la nostra famiglia si ampliava di un altro membro, lo zio Bastianino che era comproprietario della casa e di alcuni terreni circostanti di proprietà dello zio Guido. Erano con mio padre, Vincenzino, tre fratelli tutti ingegneri che avevano intermezzato la loro vita professionale da ufficiali in due guerre mondiali più un periodo di prigionia in Africa.
Andare a Pirrione per mio padre Vincenzino costituiva passare un periodo di riposo solo mentale perché occorreva inseguire il progresso e la civiltà e ogni anno c’era un progetto di ammodernamento: l’acquedotto, e servizi igienici, l’allacciamento alla rete elettrica a “Pracudda”, il terrazzo con sottostante portico, la costruzione e la manutenzione delle saie e la costruzione delle briglie nei due torrenti e poi l’orto e le piante che si facevano venire da Pistoia o da Scaravatti e poi i pomodori a cuore, le melanzane e i peperoni che venivano sempre brucenti.
Ma l’orgoglio personale di mio padre era un cedro del libano che troneggiava a destra della vallata, quasi fosse li per spiare le ombre e luci di un’attività che oscillava tra la professione e quella di conduzione di un azienda agricola.
Un’altra presenza era costante, maestro Giovanni, il falegname di casa che realizzava con il nostro legno di castagni i mobili o le porte che mio padre disegnava nei minimi particolari, dalla serratura agli incastri spesso a scale reali. Poi c’erano gli orologi solari un altro aspetto dell’attività di mio padre che progettava a realizzare personalmente e poi la notte la lezione sulle stelle che apparivano nitide tra “Minucera” e “Monte Castello”.
A dirla in vero le luci di Ucria e i suoi rumori erano l’unico legame con gli altri, che poi erano i nostri amati concittadini a noi legati da un rapporto di rispetto reciproco.
Poi c’era “U pridicaturi”, il nostro uomo di fiducia, che poi, diventato vecchio, era diventato quasi mio nonno, lui raccontava le vecchie storie di paese e soprattutto accendeva il fuoco sotto u perterra e nelle giornate di pioggia si guardava la pioggia come un miracolo divino, mettendo le bacchette sui rivoli e arrostendo castagne, mele e patate un vero paradiso terrestre indescrivibile e comunicabile solo a pochi che hanno goduto di questi piaceri.
Poi le bambole di fella e fillizzi costituivano il piacere di trasformare il niente caduco in un oggetto singolare e la gioia di noi bambini.
Poi le piante di ficodindia, le ginestre e il pino, nello spazio antistante la chiesetta che sembrava non crescer mai, poi a gebbia che noi ragazzi trasformavamo in piscina con grande ira dei grandi, che probabilmente ci invidiavano.
La Rocca di Scaglione era lo zenit di un mondo da  fiaba, da li proveniva l’acqua che arrivava a casa e li si andava a fare la merenda con le provole e il pane fatto in casa.
Poi le api e il miele, mio padre era un apicoltore e faceva costruire da don Giovannino anche gli alveari moderni e ancora a sarsa e l’astrattu steso al sole con maestria e controllato almeno ogni ora, doveva venire quel rosso luccicante che era l’antidoto all’inverno.
Poi i biscotti, a marmellata e u burru e u pani pi i picciriddi e quello di crusca per i cani.
Dimenticavo di dire che noi avevamo una proprietà a Rocca di Caprileone da dove mio padre faceva venire una mucca per avere il latte fresco che veniva munta regolarmente ogni mattina.
 Un anno c’era pure un vitellino con cui io giocavo fino a quando cresciuto e infastidito dal mio accarezzamento tentò di incornarmi con mia grande meraviglia, era cresciuto e non voleva rotte le scatole, sono sicuro che aveva ragione. Poi la scuola e la città e tutto si dissolveva.
Tutto questo all’ombra di quella grande clessidra che si chiamava tempo, si dice che il tempo e la morte non aspetta nessuno ma la valle resta sempre verde a prescindere da chi la possiede perché e come il primo grande amore non si scorda mai perché anche se non lo vuoi fa parte di te e non morirà se tu non lo vorrai e io non lo voglio e scrivo per tramandare.
Senza memoria non c’è storia, ed è questo il vero motivo per cui Maria Scalisi di adopera a riportare scrivendo un tempo passato come chiave di lettura del futuro. Grazie.




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