giovedì 21 maggio 2015

I MILANISI - Giuseppe Salpietro -

I MILANISI
- Giuseppe Salpietro -



C’era un tempo nel quale le rondini numerose  s’impadronivano del cielo, pur facendo compagnia agli esseri umani direttamente nelle loro case. Nidificavano ovunque, sotto ogni tetto, sotto ogni riparo offerto casualmente dall’uomo, alla conclusione del loro lungo viaggio iniziato con la stagione propizia pare nel sud del Sahara. Il loro volo appariva agli occhi di tutti sicuro, contraddistinto da una rapida successione di curve e cambi di traiettoria alla ricerca costantemente frenetica di insetti da consegnare, dopo una veloce virata, al nido.
Oggi non ce ne sono quasi più, ne arrivano solo pochi stormi di entità numerica modesta, così come sembrano spariti da anni “i milanisi”.
In effetti questi, non arrivavano tutti da Milano dove certamente si trasferì negli anni gran parte della manodopera attiva della popolazione dei Nebrodi, segnata da un continuo stillicidio che ne ha compromesso per sempre le potenziali risorse umane, ma da ogni località del nord industriale dove fu possibile trovare migliori condizioni di vita complessiva. D’altronde, anche mio padre si trasferì a Messina subito dopo il secondo conflitto mondiale per lo stesso motivo, e pure io nato lì, secondo questa accezione larga, a modo mio, sono “milanisi”. Diciamo pure, scarsamente o diversamente “milanisi”.
D’estate, arrivavano per trascorrere le ferie  “i milanisi” e le calde e lunghe serate agostane passavano tra una chiacchierata nella piazza, una “iucata”, un amaro rigorosamente Averna e tanti progetti per il futuro. Benché tanti avessero certamente migliorato il loro tenore di vita, tutti ricchi apparivano già. Dopo tre mesi mutava l’accento, rafforzato e contraddistinto nelle nuove inflessioni da un immancabile intercalare “né” che concludeva o anticipava ogni frase, ma che voleva anche significare: hai capito ??, “chi” fai ??, dove vai ?? dimmi, alzati e “annamu a missa” che è tardi etc., etc,……….; insomma il tutto, con i suoi mille significati, racchiusi in un suono.
Sembrerà strano, ma la prima domanda che dovevano sopportare incontrando gli amici dopo infiniti convenevoli era “ma quannu parti ???”. Domanda che precedeva la solita consequenziale litania sul dispiacere comune per la brevità del tempo a disposizione. Sempre così gli esseri umani, invece di godere la vita nei suo addivenire, si angosciano per quello che accadrà o dovrebbe accadere tra venti giorni.
Al panificio invece del rustico “minnu” o della classica pagnotta di grano duro, chiedevano per i loro palati resi più esigenti ed aggraziati la sconosciuta nordica michetta notoriamente cava all’interno, che naturalmente non trovavano mai.
Anche le loro automobili dovevano essere esagerate in virtù del nuovo rango ed anche per mortificare sul nascere chiunque avesse avuto dubbi sul tempestivo benessere raggiunto. Chi veniva dalla fredda Germania, una sorta di milanese del nord, amava esibire poi “u stezzu cu pilu”, un comodo rivestimento di pelliccia finta (o vera per i più esigenti), che rendeva più piacevole l’impugnatura.
Il nuovo migliore status era poi certificato,  quando il paesano arrivava  accompagnato da una bella “zita” selezionata tra le numerose di evidente razza celtica. Una bella stanga più alta del “braghettone” della porta, capace di suscitare un pizzico di invidiuzza e mal celati appetiti tra i vecchi compagni di combriccola.
Anche i nomi avevano ricevuto drastici mutamenti o smussature per renderli meno sgraziati, meno cacofonici. Carmela era ora Carmen, Nunziata era diventata all’improvviso Tina, Sebastiano s’era tramutato in Seby, Rosaria in Sara, Maria in Mary e così via fino agli immodificabili Tindara (Tinnira) e Filippa che non poteva diventare certo Lippa.
Quanti ne arrivavano tutti assieme, tutti in concomitanza con la chiusura estiva delle fabbriche, in quel periodo storico nel quale  era sconosciuta la vacanza intelligente, come pure la disoccupazione latente.
Nel giro di qualche giorno il paese si ripopolava tutto ed il primo effetto negativo ricadeva sui posteggi. Già, come nella Palermo di Johnny Stecchino il primo problema di Ucria non è la precarietà dell’occupazione, ma il “traffico”. Ogni angolo del Paese,  che ha sviluppato nei secoli un’urbanizzazione fitta come una ragnatela e nel contempo, come se non bastasse, dotata di viuzze strette adatte sovente solo agli equini (i muli erano infatti diffusissimi fino alla metà del secolo scorso), risultava straripante di automobili, specie nelle poche piazzette disponibili.
Ma era niente, se fossero rimaste lì ferme per alcune settimane. Il problema era che si muovevano di brutto.
Passi per il bagno mattutino a Capo d’Orlando, ma al bar perché andare con la macchina?. E già, abitudine radicata che non si perde mai, sia per gli stanziali, che per i forestieri, quella di raggiungere i luoghi di aggregazione in macchina. Bisognerebbe dotare Ucria, spendendo qualche miliardo di euro, di metropolitane efficienti come quelle di Parigi o di funivie avveniristiche come quelle del Monte Bianco per risolvere il problema, ma forse sarebbe meglio farsi semplicemente due salutari passi a piedi.
Normalmente “il milanese” si lamentava che a causa dei notevoli costi affrontati ogni anno per venire in Sicilia, sarebbe risultato più economico organizzarsi diversamente facendo una vacanza in un lontano paese straniero, magari a San Maarten o a Cuba. Non era sempre vero, i vecchiareddi, potendolo, certamente erano ben disponibili a sovvenzionare, a porgere una mano, pur di avere accanto i figli o i nipoti per qualche settimana, rompendo l’incanto della lunga solitudine dei mesi invernali. Ma sempre la stessa tiritera era : “l’anno prossimo vado al mare in Sardegna, mi costa meno, NEH”.
 Questo, fino alla prima domenica successiva alla festività del mezz’agosto, dopodiché, il milanese spariva alle prime luci dell’alba.
Automobili stracariche all’inverosimile di: pumadoru, sasizza, provole, conserve alimentari e di ogni altro ben di Dio, si muovevano in direzione opposta per ridare spazio, nel grigio inverno lombardo o piemontese, alle frenetiche attività ordinarie.
Lì, attendevano come sempre per undici mesi le future lontane ferie, colorando nel loro intimo con accese sfumature i ricordi dei momenti passati nel paese natio, ma  pronti a ridesiderare di essere altrove non appena giunti.
Sparivano e tornavano all’improvviso come le rondini, che dopo avere lasciato i loro nidi, in direzione opposta percorrevano migliaia di chilometri, in un ciclico, incessante viaggio.


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