lunedì 22 dicembre 2014

I MOTTICEDDI - Giuseppe Salpietro -


Una frequente attività alla quale non si sottraeva nessuno dei paesani, specie coloro che frequentavano saltuariamente il Paese, era la  visita ai motticeddi”. L’unica via d’accesso al Cimitero di Ucria era costituita un tempo dalla via Cecata. Forse chiamata così perché cieca, senza sbocco su altra via, quasi ad indicare metaforicamente a chi la percorreva “ahinoi” sulle spalle altrui in posizione orizzontale, che il percorso era senza ritorno. Essa, a causa della notevole pendenza che la caratterizzava in alcuni tratti, sembrava progettata per offrire occasione di penitenza terrena, avvicinando, tra un fiatone e l’altro a bocca spalancata, le persone anziane al momento del trapasso nel quale sapevano di dovere “renniri l’anima a Diu”.
Per questo, si percorreva a passo lento leggermente inclinati in avanti alla ricerca del proprio baricentro, inerpicati nel pendio che ad ogni metro, quasi per ricompensa, a levante offriva allo sguardo nuovi e più ampi dettagli. Nell’erta, si superava sempre sulla sinistra, un luogo da noi conosciuto come l’orto di Scaglione, il temuto ingegnere Federale di Messina durante il periodo fascista e poi, meraviglia, s’incominciava ad intravvedere la scalinata che conduceva innanzi al Convento cinquecentesco dei Domenicani. Gli scaloni tradizionalmente di pietra arenaria locale che ricordo tondeggianti al bordo esterno della pedata erano perfettamente integri ma lisi a cagione delle frequenti intemperie e del continuo calpestio. Composta da più rampe,  consentiva di arrivare alla prima piazzola di sosta contrassegnata ancora oggi da una croce in ferro e da lì, percorrendola oltre, si giungeva innanzi all’antico complesso religioso che ricomprendeva i resti, allora ancora chiaramente leggibili, del Convento e delle due Chiese Del Santo Rosario e di Santa Maria della Scala ormai allo stato di rudere.
Il manto di catrame della circonvallazione poi realizzata che oggi agevola l’accesso ai luoghi, ha reso monca la scalinata e modificato irrimediabilmente l’armonioso assetto, portando via per sempre quel carico di magia e di pace che quel luogo ispirava.
Un tempo l’unico accesso al Camposanto era razionalmente posto alla base di una stretta salita il cui percorso è ancora oggi contrassegnato da alti ed eleganti cipressi, che sembrano con la loro imponente presenza, fugare ogni dubbio sulla destinazione del luogo. La stradina perimetra a sud ed ad ovest la chiesa sconsacrata di Santa Maria della Scala, con il suo accesso delimitato a valle da un cancelletto ancora esistente esteticamente semplice ma decoroso, i cui battenti al movimento, a causa dello stridio di ferraglia che ne derivava rafforzavano la soggezione che già di per se il luogo incuteva.
Conobbi Paesi interi, intere generazioni così, visitando ripetutamente quel luogo per anni: nonni, zii, cugini primi, secondi e terzi, e tutti i parenti di ogni ordine e grado.
Osservando le tombe, che ad una ad una venivano passate al setaccio, leggendo nomi, guardando foto e riflettendo sul solenne epitaffio che quasi sempre esaltava la generosità dei parenti in vita: “I figli ….. con affetto posero ….”, talvolta mi capitava di cogliere la sensazione strana, che quel volto offerto all’umano ricordo tristemente immortalato in posa rigida e solenne l’avevo già visto il giorno prima.
Quasi commosso per l’inattesa dipartita, ancora imberbe, chiedevo subito notizie “e comu fù, u visti aeri ‘ntà chiazza”, ma pian piano con l’esperienza capii, considerato il ripetersi dello strano ed innaturale fenomeno che avrebbe potuto giustificarsi solo con il diffondersi di una improvvisa epidemia che aveva fatto tirare le cuoia a buona parte del Paese, che invece, si trattava solo di lucida, concreta, umana lungimiranza.
Uomini e donne abituati a patire mille traversie, mille privazioni, abituati a maneggiare giorno dopo giorno e per una vita la terra, quella  stessa terra che era stata fonte di nutrimento per loro ed i loro figli, non facevano altro che pensare anzitempo al loro trapasso evitando “camorrie” ai parenti.
“Polvere siamo e polvere torneremo”, bisognava solo abituare se e gli altri all’idea, magari accettando compiaciuti qualche crisantemo o altro fiore reciso riposto per errore da vivi, ma era fondamentale gestire anzitempo il momento. Programmare i dettagli: foto scelta con cura, epitaffio, iscrizioni comprensive della data di nascita, e poi ancora: marmo, portafiori, esposizione assolata, vicini di … loculo e financo la banda.

Di tanto in tanto, tali “aspiranti” si recavano a dare una spolveratina alla loro tomba già fornita di ogni comfort compresa l’immagine fotografica selezionata fra le migliori, sempre però seriosa ed austera, evidentemente riflettendo nel mentre, su un dopo meno effimero, ma parimenti con il medesimo panorama goduto in vita possibilmente “chi nucidderi” che coloravano il loro paradiso terreno di colori mutevoli in relazione all’alternanza delle stagioni.
Conobbi anche chi per necessità si privò di tutto per una vita, ma non potette fare a meno di programmare più che dignitoso il proprio funerale,  il proprio “accumpagnamentu”. In particolare ricordo “a ‘gnura ….”. Normalmente e in tutte le stagioni, girava per le vie a piedi scalzi e vestiva di povere vesti. Un abito per l’estate marrone scuro e uno per l’inverno grigio, entrambi logori, ormai senza forma e resi attillati alla vita, come fosse una monaca, mediante una stretta corda che faceva presa ad un grossolano nodo.
Si diceva che non portasse biancheria intima e per abitudine atavica gli bastasse divaricare le gambe nella vicina campagna, ma era una diceria, perché è certo che talvolta “u rinali” l’ho visto io “sduvacari a cu passa passa” frettolosamente dal balcone sulla pubblica via.
Penso proprio, che i “caddi” sotto la pianta dei piedi ormai fungessero da solette, tanto era naturale il suo movimento, il suo incedere. Ma la morte no, quella doveva essere programmata anzitempo nei dettagli più minuziosi. Non sobria, ma vistosa al punto giusto. Aveva cinque figli e il suo amore arrivò a tal punto da pagare anzitempo una ghirlanda per ciascuno di loro: “non putiunu fari mala figura all’occhi di genti”.
 E crepi allora l’avarizia.


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