giovedì 22 gennaio 2015

IL FEDERALE - Giuseppe Salpietro -

IL FEDERALE
- Giuseppe Salpietro - 

Fu uno degli uomini più potenti di Messina nel periodo che si colloca a cavallo tra le due guerre, ma non se lo ricorda più nessuno. Non ne sento mai parlare.
Era federale fascista, temuto e rispettato. Lo ricordo in alcuni sbiaditi film Luce muoversi con passo sicuro accanto al Duce mentre questi, in visita a Messina,  inaugurava la rinnovata Stazione centrale o l’appena eretto “Ospedale Regina Margherita”. Erano i primi anni 30.
Fin da piccolo ebbi modo di conoscerlo ed a causa della mia giovane età, o della sua, naturalmente già avanzata, m’è parso da sempre anziano, ma in modo indefinito avendone constatato una vitalità non comune.
Per parlare si serviva di una microfono portatile a batterie che alla bisogna accostava al collo esattamente in una zona dove era stata praticata una fessura. Esercitando una piccola pressione su di esso attivava il “marchingegno” che amplificava la fioca voce sibilante ottenendone, grazie all’ausilio, un suono rauco e compatto simile a lievi continue martellate intermittenti come fosse un telegrafo o una vecchia radio a valvole in cerca della giusta frequenza. L’effetto era che nessuno imbastiva con lui lunghe conversazioni, ma tutti eseguivano muti ed incerti da farsi.
“Ma chi dissi ?”.
Sempre apparentemente cortese nei modi, ma di natura ispida.
Forse perché ero innatamente diffidente, forse perché già adolescente avevo maturato una mia personale idea sul “ventennio”, non mi incantò mai, anche se ammiravo i tratti di una spiccata forte personalità.
Solo talvolta, indulgendo discretamente all’umana vanità, parlava del passato. Mi mostrò in una sola occasione un vecchio libro nel quale, tanto l’aveva guardato, trovò subito la sua biografia accostata ad una immagine fotografica che lo ritraeva a mezzobusto da giovane. Ricordo vagamente un profilo severo con l’attaccatura dei capelli sulla fronte alta, neri e lucidi, tirati all’indietro con abbondanti quantità di brillantina Linetti.
Costui abitava in un villino a due piani posto sulla circonvallazione, oggi Viale Regina Elena. La casa era decorosa, ma non lussuosa. Oggi verrebbe considerata assolutamente comune. Dalla strada un cancello in ferro a sagome rettangolari, consentiva l’accesso ad una decina di scalini che superando il dislivello dallo stradone, conducevano ad uno slargo rialzato dal quale si accedeva alla dimora.
Aveva avuto dal matrimonio tre figli, due dei quali maschi. Uno di questi, che viveva nella casa paterna, lo segnò certamente per il dispiacere, infatti dopo una breve vita travagliata a causa di diverse problematiche legate alla sua salute cagionevole,  gli premorì.
Quello che mi appariva stupefacente dell’arzillo, considerato che ai tempi non erano percorribili le attuali autostrade, era che ogni giorno con la sua utilitaria, una Fiat 850, passando dai Colli San Rizzo, scorciatoia che un tempo si percorreva per valicare in località “Quattro strade” i Monti Peloritani, percorreva l’intero tragitto da Messina a San Piero Patti e talvolta Ucria e ritorno, per essere lì pronto a curare le varie attività che il governo “da robba” richiedeva.
Cose da pazzi pensavo, ad ottant’anni, con un’automobile sgarrupata, questa frenesia non comune. Neanche il radiatore dietro la mascherina anteriore aveva. Quale ABS, il dispositivo che evita il bloccaggio delle ruote; quale ESP, il congegno di controllo elettronico della stabilità dinamica; quale TCS, che riduce il pattinamento delle ruote e migliora la stabilità. Al tempo non erano contemplati.  Imperterrito percorreva trecento chilometri per ogni santo giorno, concedendosi una sorta di “fermo biologico” come per il pesce negletto, solo nelle feste comandate, ma non certo per santificarle. Andava e veniva, avanti ed indietro come un orologio a pendolo sia in estate, che in inverno. Ma che aveva da fare l’ingegnere, quali erano i suoi affanni quotidiani. Vero è che aveva proprietà, a sentire i più, vaste: u Nucidditu, Spaditta …. , ma possibile che dovesse così frequentemente incontrare campieri, fimmini e sovrastanti per curare i suoi interessi.
Penso proprio invece, che non si fosse mai adattato al suo nuovo status di uomo qualunque. “Ci staunu stritti i panni” abituato com’era, un po’ per censo, un po’ per ricchezza acquisita “a papariari”.
Si favoleggiava dei suoi arrivi ad Ucria con questa enorme macchina scura, pare decappottabile, il cui “scrusciu du muturi si sintia i Rudaffi”.
Non so se frutto di diceria, ma sentivo per certo, che per amore del gioco o per spavalderia, l’azzardo con le carte non gli era sempre propizio, tant’è che più di una proprietà e di una casa passo di mano in un sol colpo.
Ad Ucria abitava in palazzetto posto in via Gaetano Algeri oggi stravolto nel suo stile originario, ma che ancora dovrebbe conservare l’ampio androne e le scale in pietra locale. Al suo angolo rimasto indenne, sotto l’ampio terrazzo dove erano un tempo riversate quintali di nocciole ad asciugare al calore settembrino, vi era il garage delle sue autovetture poi divenuto, in tempi più recenti, officina di riparazioni meccaniche.
Possedeva, a dire il vero, anche una Fiat Campagnola modello ’56, comunemente chiamata Jeep ma non lo era, che ricordo spesso proprio in quel garage e che utilizzava, considerate le sue diverse caratteristiche di trazione, per i percorsi più accidentati.
Proprio in occasione di un passaggio verso Ucria con la Campagnola, ebbi modo di incrociare a San Piero Patti il noto Antonino Spanò, il cui caso può essere certamente inserito nelle più clamorose vicende di malagiustizia italiana.
Era l’ottobre del 1945 quando Spanò, originario di San Pietro Patti, fu accusato di avere ucciso nelle campagne di Ucria il benestante Francesco Baratta.
Solo nel 1969 la Corte d’Assise d’Appello proclamò l’assoluzione di Spanò « per non avere commesso il fatto », ma dopo 23 anni, 8 mesi e 21 giorni di prigionia buona parte dei quali trascorsi nel carcere dell’Isola d’Elba.
Passò il resto della sua sfortunata vita facendo il messo notificatore presso il Comune  San Pietro Patti.
L’ingegnere riposa anch’egli nel piccolo cimitero di Ucria, nessuno sfarzo, nessun cenno all’antica temuta fama che talvolta, per necessità, doveva pur sostenersi con copiose lubrificazioni di budella altrui mediante poco gradite dosi di olio di ricino. Oggi, solo freddo granito.
Penso proprio che la morte anche in questa circostanza, come in tante altre, abbia pareggiato gli esiti finali, anche se questi, come gli altri, merita un fiore dalle mani pietose dei vivi, avendo certamente espiato anzitempo patendo l’aspra sofferenza già sulla terra.  


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