giovedì 22 gennaio 2015

"IL MESTIERE DEL MEDICO" - Mario Angelo Nici -

"Ieri sono andato in ospedale e sono sceso nella chiesetta al piano seminterrato: mi sono reso conto di esserci entrato in precedenza solo una o due volte, negli ultimi dieci anni. La piccola cappella, ricavata da un vecchio ambulatorio, era deserta e profumava di incenso, ma appena appena, come un vago sentore, un ricordo sfocato di Natali lontani e più o meno felici (felici, che vorrà mai dire questa parola).
Non sono mai stato un fervido praticante; credo infatti che sia stato qui richiamato soprattutto da quel senso o bisogno di comunità, che si va perdendo e di cui questa chiesetta vuota appare l'immagine più plastica: quest’anno, in particolare, mi sono trovato a riflettere su alcuni aspetti della mia professione.
Mi sono interrogato, per esempio, sul modo in cui sto lavorando o, per meglio dire, sul modo in cui sto interpretando il mio lavoro.
Il mestiere del medico é particolare, non dico che sia il più bello del mondo, ma ha un suo indiscutibile fascino. C’è qualcosa, nel mestiere che faccio io, che agli altri manca.
Quando un medico si reca al lavoro è come un bicchiere pieno: di ansie personali, problemi familiari, guai di salute. Ma quando arriva in ospedale ha di fronte un altro bicchiere pieno: il paziente. E allora l’unico modo per affrontare degnamente il problema è decidere di vuotare parte del contenuto del nostro bicchiere, accettare l’idea che il bicchiere del paziente sia per forza di cose più pieno del nostro. Come medici, ci lasciano crescere nell’idea che il nostro sia un mestiere puramente tecnico: hanno persino elaborato un nuovo credo pagano a supportare questa teoria, l' EBM, cioè la Medicina Basata sulle prove di Evidenza, quasi che il paziente fosse una "scena del crimine" nei telefilm americani della serie CSI, e invece abbiamo a che fare con le persone. Persone ammalate, talvolta sole, sofferenti o solo preoccupate. Con un bicchiere più pieno del nostro.
Negli anni, forse per un naturale meccanismo di autodifesa, forse per stanchezza o più probabilmente per tutt'e due, il mio approccio con il paziente è diventato sempre più asettico ed impersonale, quasi sfuggente. É emblematico di questa condizione il mio pessimo rapporto con il telefonino. Spesso, infatti, i pazienti esagerano i loro sintomi, sono ipocondriaci, vi tormentano con quesiti clinici a prima vista assurdi, chiamando a tutte le ore, ma tante altre volte, ed è la maggioranza dei casi, il paziente parlandovi urla la sua diagnosi. Si può nella quotidiana e sempre più difficile pratica professionale mantenere una maggiore sensibilità verso questi aspetti, senza gravare troppo e terremotare la propria sfera personale? É faticoso, ma si può e si deve. Ho sempre pensato che il sistema sanitario stia in piedi grazie alle persone che ci lavorano, non ad altro.
Qualche tempo fa mi é capitata una signora impaurita. Era prenotata per eseguire una Tac oncologica di controllo. Dopo anni di calvario, tra interventi, radio e chemioterapie devastanti, aveva perso la voglia e la speranza. All'atto del consenso informato, non voleva più sottoporsi all'esame. Un po' distrattamente l'ho convinta a farlo, come atto dovuto. Alla fine dell'esame, la signora mi ha preso la mano, ha girato verso di me il suo viso all'improvviso dolcissimo ( ma era dolcissimo pure prima, solo che io guardavo senza vedere) e ha detto: "Io non posso vederla, lo sa...la chemioterapia mi ha tolto la vista, però la sua voce mi ha rassicurato, grazie, lei è una brava persona ed un bravo medico".

É stato quasi uno schiaffo in faccia. Perché poi ripensandoci ero io che volevo ringraziare lei, ormai andata via. Ecco, questo pensiero che oggi riaffiora é un po' il mio regalo di Natale: i pazienti, in un modo o nell'altro, consapevoli o inconsapevoli, ci scelgono, non è mai il contrario, e poi bisogna essere all’altezza del compito che ci è affidato, anche quando si è troppo stanchi.
Natale è passato, oggi sono di guardia, tanti auguri a chi non sta bene, a chi sta bene ed a voi tutti".

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