martedì 25 novembre 2014

A NUCIDDA - Giuseppe Salpietro –


A volte penso si sia smarrito già da anni quel legame che ritenevo indissolubile tra il Paese di Ucria ed il suo frutto simbolo. Già, “a nucidda”, elemento unificatore, dal punto di vista economico nei secoli salvifico. Tutta l’economia ruotava attorno ad essa, ma anche le cadenze giornaliere, le abitudini, le ritualità umane e financo la festa “du Signuri a Pietà”, che cade, non a caso, proprio alla conclusione del periodo dedicato alla raccolta, quasi a suggellare un rapporto inscindibile con la fede, con la grazia offerta a piene mani “A grazia i Diu”. Con la vita, con l’esistenza della comunità. Un ringraziamento, non proprio mal celato per il benessere, a dire il vero relativo, che ogni anno puntualmente scandiva con la raccolta la conclusione del periodo estivo. Coppole, gilet, càusi di velluto a coste grigio scuro come fossero divise, sedie di legno impagliate allineate in quantità mai più vista sul ciglio della strada davanti e nei pressi del “Circolo dei Combattenti”. Persone dal corpo asciutto, dal volto scavato e dallo sguardo vigile che alternavano il sano curtigghiu con estenuanti discussioni sulla nocciola, sul suo prezzo, sulla abbondanza o la scarsità della raccolta ultima. Gira e rigira però, a dire il vero, sempre scarsa era stata l’annata.
Ricordo che mio padre, quando venivano parenti o amici a trovarlo a Messina, dopo averli salutati cordialmente e con usuale affetto, chiedeva “a quant’è a nucidda”, eppure non viveva di questo, non confidava certo sul suo prezzo corrente. Semplicemente, era rimasta in lui parte della sua precedente essenza, del suo essere stato, della sua identità immutata, che si appalesava, come in tanti altri, in ogni possibile occasione. I tanti altri, adattati in ogni parte del Paese e all’estero al ruolo impiegatizio o operaio, ma per la pagnotta, perché nella loro mente permaneva mai scalfito il ricordo del piacevole suono delle nocciole che si arrotolavano, tra una palata e l’altra, sopra l’assolato “caliatore”.
Proprio nel periodo della raccolta anche alla mia famiglia “toccava” una permanenza ad Ucria di quindici giorni. Come non ricordare il viaggio, lo stesso tempo per raggiungere New York. Non essendo stata realizzata ancora l’autostrada, l’autobus percorreva lentamente la settentrionale sicula fino a Patti, e da lì, dove faceva sosta, s’inerpicava verso San Piero Patti. Una tragedia della filmografia moderna. L’appuntamento per molti era fissato davanti al “Bar Iolanda”, poi divenuto per decenni Grech (oggi Florian) alle ore 14, l’abitacolo era talmente piccolo da lasciare spazio solo ai passeggeri, mentre i bagagli venivano ordinariamente posizionati sul tetto. Per noi, l’ora X scattava alle 14,15 davanti all’Ospedale Regina Margherita, lesti e veloci a fare un segno con la mano appena lo notavamo spuntare in capo al rettilineo.
Un vero viaggio in diligenza che normalmente procurava malori inverosimili ai malcapitati passeggeri che notoriamente non abituati alle curve si sentivano tutti male. Chi ingurgitava pillole, chi si apprestava ad aprire il sacchetto per facilitare il vomito, chi resisteva mostrando sul volto un pallore inusuale. Bianchi come le pezze, come lenzuola stese al sole animate dal vento. Mi chiedo ancora come fosse possibile che un tempo la macchina e l’autobus mietessero tante vittime. Tutti male stavano, tutti avrebbero preferito il più tranquillo dorso “du sceccu”, ma rassegnati si aspettava che passasse il tempo necessario che non arrivava a compimento prima delle 19.30 /20.
Da lì in poi le ritualità immodificabili. Regole non scritte ne scandivano i tempi e le modalità di svolgimento. Solo i saluti ai parenti ed agli amici al tempo viventi, una visita a sera, impegnavano tanto tempo che si passava quasi senza soluzione di continuità all’ulteriore giro per i saluti di congedo.
Ma l’asse portante di buona parte delle argomentazioni, la regina, restava sempre lei, “a nucidda”. Anche le difficoltà e la fatica impiegata per la sua raccolta sembravano svanire quando dai diversi poderi all’imbrunire, i paesani facevano ritorno alle loro case ed ai magazzini ostentando quasi, nel passare dalla “chiazza”, il copioso raccolto riposto spesso sopra il portabagagli di scassate Fiat 600 che risultavano stracolme all’inverosimile di sacchi.
E così, affondo anch’io le mie radici nel nocciolo, ma sfuggendo volutamente, per il momento,  ai sentimenti, fornisco brevemente conto di un appassionato studio dell’agronomo Ferdinando Alfonso denominato “Monografia sul nocciolo”, edito a Palermo nel 1886.
In esso,  uno degli aspetti che colgo attiene alle origini del prelibato frutto, alle prime informazioni storiche a noi pervenute. E così apprendo, che l’origine antichissima viene dimostrata da tale Carlo Vogt a Vienna nel dicembre del 1869, quanto furono rinvenute nelle palafitte di un grande stabilimento a Rabenhausen, in Svizzera, avanzi risalenti a seimila anni prima.
Apprendo ancora, che i popoli più antichi conobbero il legno del “Corilo” e lo ritennero simbolo di riconciliazione e di pace, tant’è che il caducéo di Mercurio era composto da un bastone tratto da un ramo di nocciolo adornato da due ali circondate da serpenti.
Pare addirittura che i Penestrini, assediati da Annibale, abbiano salvato le loro vite unicamente cibandosi di nocciole.
L’alberello di nocciolo, secondo le affermazioni di Plinio, proverrebbe dall’Asia Minore dove prendeva il nome di Ponto. Da tali luoghi sarebbe stato poi impiantato in Asia e successivamente in Grecia con il nome di Noce di Ponto. Gli elleni poi, conquistando ed insediatisi in parecchia aree del nostro territorio, vi avrebbero importato il nocciolo, che si sarebbe esteso principalmente nelle attuali Toscana ed Emilia Romagna, oltre che in diverse Isole del Mediterraneo e nell’area del napoletano dove fu conosciuto con il nome volgare di Avellano da Avellino.
Con il variare dei tempi e delle dominazioni straniere, l’albero di nocciolo in Italia assunse nomi diversi e fu chiamato: nocciolaro, noce pontico, avellano, nocello, nosello; al pari delle nucole che a loro volta, venivano conosciute come: nocciole, noci pontiche, avellane, nocelle e noselle.
Nella stessa monografia ottocentesca, Ucria ed i suoi terreni apparivano in tutto il loro splendore produttivo, e le piantagioni diffusissime in ogni dove, vegetavano rigogliosamente sui terreni notoriamente infrattuosi e vallivi con pendenze accentuate ed irregolari. Nel fornire un quadro complessivo del territorio, l’attento autore osserva che nelle alture poi, già destinate alle essenze forestali, prevalgono i terreni argillosi, che si “aggravano” di acqua durante l’inverno e screpolano d’estate. Trattando dei “più belli” noccioleti di Ucria, racconta che insistono in terreni “umosi a pendio, neri, sciolti, freschi e profondi, quelli stessi nei quali la felce vegeta rigogliosamente e tra essi su quelli elevati infra 800 metri sul livello del mare”. Ma non soltanto il nocciolo al tempo rappresentava elemento di sostentamento, anche il frutteto ad Ucria era abbastanza diffuso e bastante rispetto al modesto consumo locale e molteplici varietà arboree si associavano alla vigna, come pure ai fichi ( intesi volgarmente fichèri ). Fatto singolare degno di nota, è che veniva osservata in quel periodo, una diffusa estensione di vitigni circondati da noccioleti, in una alternanza che faceva prendere il sopravvento all’una o all’altra varietà in ragione della morfologia del terreno e della esposizione ai venti nordici.
Curioso è osservare, che al tempo del prezioso studio, che  risale al 1886, il valore commerciale delle nocciole fosse in sensibile crescita di anno in anno, tant’è che si era spinto a toccare la ragguardevole somma di ben 97,75 lire per ciascuna salma, corrispondente a kg 174,55.

In conclusione, una approfondita conoscenza del nostro territorio, delle sue origini e della sua pur modesta economia non è semplice esercitazione nostalgica, ma vale per comprendere meglio le potenzialità sopite, o talvolta soppresse, che conviene a tutti fare riemergere in fretta se s’intende continuare un percorso da altri tracciato nei secoli, frutto di esperienza e di fatiche. Valga come monito, se le identità, intese come patrimonio comune si dissolvono, la lacerazione non lascia indenni.

1 commento:

  1. QUANDO RITORNO AD UCRIA , E ULTIMAMENTE LO STO FACENDO SPESSO, CERCO DI CONTINUARE E MANTENERE VIVA QUESTA TRADIZIONE DELLE NOCCIOLE, PERO' ......CHE GRAN MAL DI SCHIENA ! SOLO CHI HA "RUNCATO " E RACCOLTO LE NOCCIOLE LO PUO' SAPERE . NOTO CHE GLI ANZIANI SEMBRANO , E FORSE LO SONO, IMMUNI A QUESTA SOFFERENZA, O LA CELANO IN MANIERA STRAORDINARIA.LE NOCCIOLE CHE MI PORTO A CASA , QUI AL NORD DIVENTANO TORTE E BISCOTTI DAL SAPORE INEGUAGLIABILE E LA DIFFERENZA CON ALTRI PRODOTTI SIMILI SI SENTE ....ECCOME!

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