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mercoledì 22 aprile 2015
CHIACCHIERANDO DI MALATTIE RARE E NON SOLO…… - Antonella Algeri -
- Antonella Algeri
-
Capita spesso di
leggere di episodi di “malasanità”, più o meno gravi, più o meno
strumentalizzati, ma che, per fortuna, non sono la norma (ci mancherebbe
altro!!); indubbiamente le inefficienze
devono essere segnalate agli organismi di competenza e portate a conoscenza di
tutti i cittadini affinchè si vigili, ognuno nel proprio ruolo, e si tengano
“gli occhi aperti” come si suol dire…….
Molto meno spesso capita invece di leggere di episodi di
“buonasanità” non perché non esistano ma bensi perché tali situazioni rientrano
nella normalità delle cose . Credo invece possa essere utile ed opportuno, per
una giusta valorizzazione dell’operato di chi (medici, infermieri, operatori
sanitari in genere) dedica la propria vita ad una attività ed in un ambito dove
la certezza non esiste ed anche per dare fiducia a tutte quelle persone che
loro malgrado si ritrovano a combattere quotidianamente con la malattia.
Proprio in questa ottica, tempo fa, ho segnalato all’Ordine dei Medici di
Messina, un episodio avvenuto tempo fa nell’Ospedale di S.Agata di Militello,
dove era stato ricoverato mio figlio, e dove lo Psichiatra Dr. Gianni Roberto Cipriano ha gestito con
professionalità, attenzione e grande rispetto della persona, una criticità venutasi a creare e contemporaneamente
ha impostando una terapia che ha avuto un notevole risultato sul paziente.
Il centro studi la
Fenice di Messina, in particolare il Responsabile Dr. Giovanni Caminiti
e la Commissione
medico-scientifica, hanno valutato
positivamente la mia segnalazione premiando,
lo scorso sabato 18 c.m., il Dr. Gianni Roberto Cipriano, durante una
manifestazione svoltasi a Messina.
Colgo l’occasione per evidenziare l'importanza della
Psichiatria che non è una branca secondaria della medicina e sopratutto per ricordare
che le persone affette da patologie psichiatriche non sono colpevoli della loro
malattia e non sono dei deboli.... tutti possiamo ammalarci, in qualunque
momento!! Da tempo combatto una mia personale battaglia contro i pregiudizi e
lo stigma che circonda le malattie della mente. L'Organizzazione mondiale della
Sanità stima che le patologie psichiatrice sono la terza causa di inabilità
dopo le patologie oncologiche e quelle cardiovascolari, ma sopratutto si stima
che due pazienti psichiatrici su tre non si curano anche e sopratutto a causa
dei preziudizi, e questo è molto grave.
Aggiungo un breve commento dello Psichiatra Dr. Giuseppe
Lago che così si è espresso:
Condivido e aggiungo che la Psichiatria è tuttora
paralizzata da una legge (la 180 di Basaglia) che sacrifica la figura dello
psichiatra, equiparandolo a un infermiere, assistente sociale, burocrate,
impedendogli di svolgere, come gli altri medici, una funzione professionale.
Finché non sarà possibile separare la psichiatria ambulatoriale (che è la
maggior parte) dalla psichiatria assistenziale (che è minore ma richiede più
strutture), si farà sempre una gran confusione e si impedirà l'opera più
importante che è quella di prevenire e curare precocemente i disturbi
psichiatrici.
Eventuali segnalazioni possono essere fatte o all’ordine
dei Medici o al Centro Studi La Fenice.
I ricordi di un giovane del nonno a Pirrione - Calogero Pinzone –
Ricordi del nonno di un
giovane a Pirrione
- Calogero
Pinzone –
Una famiglia molto
unita che ha sempre lavorato... anni’50... Calogero
Pinzone lavorava a Pirrione. Tante vicende
si susseguivano in quei giorni e tanti ricordi simpatici restano nella sua mente.
Il "nonno" Vincenzo lavorava dalla famiglia Baratta
Vincenzino, l’ingegnere. Durante la settimana si dedicava alla campagna,e sbrigava faccende in paese. Certo è che arrivare in paese con un mulo non era poi
cosi tanto semplice, un animale docile, mansueto ma... lento nei suoi passi. Tutti
i sabati si andava a prendere l’acqua a Scolari, due bummuli, e la si portava
col mulo a Patti, dallo “Zio” Giovanni Baratta. Certamente l’acqua di Scolari
non era paragonabile all'acqua di Patti, poiché era sempre l’acqua del
paesello. Anche se nei ricordi sorridenti di Calogero racconta le varie
vicissitudini del nonno nel preservare l’animale da trasporto: l’acqua non la
trasportava da Ucria ma la prendeva lungo il tragitto, per non rendere il
viaggio pesante al mulo. Ma al “Padrone” non lo si diceva.
Tante storie si ricordano nel territorio di proprietà
Baratta: tra Pirrione, Scolari o Nucidditu il lavoro non mancava, orto, nocciole
e terreno richiedevano un sacco di manualità. Ma la famiglia Pinzone ricorda
che la famiglia Baratta non erano i soliti “Padroni”, e come se facevamo parte
di un’unica famiglia: quello che si cucinava era uguale per tutti.
Un ricordo simpatico: un giorno l’ingegnere Baratta
Vincenzino chiede a Vincenzino Orifici: “Vai a prendere le zucchine”, allora
Vincenzino non conoscendo bene l’italiano, andò a prendere due zucche di legna,
scambiando l’ortaggio per un fascio di legna.
e....
Finì tutto con una risata.
e....
Finì tutto con una risata.
IL PUNTO CROCE
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- Rosalba Paladina -
Il punto croce è una tecnica di ricamo su tela o canovaccio o lino o trama regolare e larga, infatti
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i
fili devono essere contati e perciò ben visibili in modo da poter individuare
piccole zone quadrate. I disegni vengono a volte copiate da schemi su base
quadrettata a colori, o in bianco e nero. Si lavora su un tessuto a tessitura
regolare, l'ago deve avere una cruna larga, in modo da allargare i punti di
ingresso nel tessuto e conferire meglio regolarità al lavoro e la punta
arrotondata, per lo stesso motivo. I fili colorati sono generalmente di
cotone, di lino o viscosa e vengono lavorati in modo da formare una serie di
X, il filato più comunemente usato per il punto croce è il cotone
"moulinè" che si presenta come un filo a 6 capi divisibili La mia
passione per il punto croce è nata 2 anni fa. E' una tecnica che mi piace
molto è nata così per caso guardando delle arniche che vi lavoravano, e così
mi sono chiesta perché non provarci? Così
pian piano ho iniziato ad impararlo e adesso è diventato uno dei miei
passatempi preferiti.
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11 MAGGIO 2014, IN NOME DEL RICORDO DI UN AMICO, UN BRAVO RAGAZZO, UN FIGLIO, UN FRATELLO - Salvatore Lo Presti –
11
MAGGIO 2014, IN NOME DEL RICORDO DI UN AMICO, UN BRAVO RAGAZZO, UN FIGLIO, UN
FRATELLO
-
Salvatore Lo Presti –
Come
prima cosa, mi sembra doveroso scusarmi con le persone che più di tutte
soffrono per la sua mancanza, perché non essendo io uno scrittore, non riuscirò
a scrivere un articolo i cui contenuti e
le cui parole siano degne di un ragazzo come Marco Campisi.
Parto
dal titolo, in particolare dal mese dell’articolo e personalizzando devo dire
che da sempre il mese di Maggio per me, ma non solo per me, rappresenta un mese
in cui ci sono, o ci sono stati, giorni pieni di significati, belli come ad
esempio la festa del nostro SS. Patrono, o nel caso mio specifico il mio
compleanno e quello di altre persone a me care, ma che oltre a rappresentare
episodi, fatti e ricorrenze positive, è un mese che in me lascerà sempre e
comunque un ricordo che di positivo non ha niente. Lo sappiamo tutti, la vita,
la maggior parte della nostra vita, è facilmente riassumibile, passiamo la
maggioranza dei nostri giorni in maniera simile, direi stereotipata, sono
veramente pochi i giorni che sono veramente ricchi di significato, giorni che
ricorderemo per sempre, per me, e non solo, alcuni di questi giorni saranno
sempre l’11 Maggio del 2014 ed i giorni successivi ad esso, giorni di lutto non
solo per il sottoscritto ma per tutta la nostra comunità e soprattutto per la sua
famiglia, perché noi tutti è vero abbiamo perso un amico, un bravo ragazzo o
qualsiasi altro modo si possa trovare per descrivere Marco, ma loro hanno perso
un figlio, un fratello, e non oso immaginare cosa possa significare perdere
tutto ciò.
Adesso
potrei scrivere i ricordi felici che ho con Marco e delle giornate/serate
passate assieme, ma come me e più di me potrebbero farlo tanti altri, il mio
intento non è quello di ricordarlo scrivendo un episodio o degli episodi passati
con lui, che comunque resteranno per sempre all’interno del mio cuore, come i
vostri nel vostro, quello che voglio condividere con voi, e soprattutto con la sua
famiglia è ciò che hanno rappresentato per il sottoscritto quei giorni, ciò che
rappresentano e che mi hanno insegnato, perché se è vero che sarebbe bello
poter cancellare i giorni brutti e sostituirli con qualcosa di bello, tutti
sappiamo che alcuni giorni non si dimenticano indifferentemente dal loro essere
tristi o felici, ma bisogna trarre anche da questi giorni qualcosa, qualcosa
che ci permetta non solo di andare avanti, ma anche di diventare persone
migliori.
Giorno
11 Maggio me lo ricordo come se fosse accaduto ieri, mi trovavo a Palermo e
quella mattina avevo appuntamento alle 9.00 in un bar con Fabrizio Sciacca, per
andare a visitare il Castello della Zisa, mi ricordo benissimo, che stavo
andando al luogo dell’appuntamento per raggiungere Fabrizio quando mi è giunta
la notizia alche sono subito torno a casa a preparare la valigia. Preso il
treno alle 11.08 arrivato ad Ucria, il tempo di posare le valigie a casa mi
sono diretto verso casa sua con la mia famiglia. È stato un giorno lunghissimo,
tantissime persone presenti per rendere omaggio a lui, un amico di tutti, tutti
increduli e distrutti dal dolore, così come anche i giorni successivi.
Ma
il momento più triste di questi giorni è stato quello del suo corteo funebre,
dove un intera comunità, la nostra, era tutta stretta in un unico dolore, ricordo perfettamente che
durante il tragitto che va dal nostro duomo al cimitero, il silenzio veniva
rotto dagli applausi dedicati a lui è dalle lacrime che scendevano per la
consapevolezza di sapere di aver perso una persona veramente buona.
Quei
giorni non potrò mai dimenticarli, ma ciò che non potrò mai dimenticare è
soprattutto un pensiero che da quel giorno mi è rimasto in mente, e cioè, che noi
ucriesi, siamo capaci anche di essere tutti uniti, e mi chiedo, perché questa
unione ci deve essere solo nel dolore e non siamo capaci di provare questo
sentimento reciproco tutti i giorni? perché nei giorni che non ricorderemo e
che non ricordiamo e cioè nella routine quotidiana molte volte ci trattiamo con
odio e indifferenza? Queste domande sono rimaste chiuse dentro di me a lungo,
pensavo di essere l’unico a pensarle, e non le ho esposte a nessuno, ma poi,
circa alla fine dell’estate con Pina, Gino, Maria e altri ragazzi e ragazze, mi
sono imbarcato nell’iniziativa di creare un associazione ucriese e di scrivere
un giornalino, e soprattutto molti di loro avevano già le idee chiare su quale
dovesse essere il nome degli stessi.
E’
stata lì la svolta, che mi ha fatto capire che questo mio pensiero non era
isolato, non ero solo io a pensare ciò che ho espresso prima, ho conosciuto chi
era Ranieri Nicolai, grazie alla mia curiosità, ho appreso cosa aveva o
quantomeno cosa voleva cercare di fare ma che aveva comunque iniziato, e ho
avuto modo di leggere i numeri de “La
Cruna dell’Ago” che aveva scritto lui e che avevano scritto con
lui molti altri ragazzi nel 98’ .
Tra
i vari articoli scritti, molti di notevole interesse, uno mi ha trovato
perfettamente d’accordo, ed era un articolo del terzo numero scritto dal nostro
Sacerdote attuale, Don Carmelo Catalano, articolo scritto subito dopo la morte
di Ranieri, la frase che più di tutte mi ha colpito dell’articolo, e che io
adesso voglio condividere con voi è la seguente
“Vogliamoci
bene, vogliamoci sempre più bene.
Non
aspettiamo il pericolo per unirci e la morte per stimarci”
ed
aveva, e ha, perfettamente ragione Padre Carmelo, a cosa serve provare odio
l’uno con l’altro, a cosa serve insultarsi e additarsi, facciamo parte tutti di
una comunità, anche se non siamo come fratelli e sorelle, perché questo lo
reputo molto difficile, possiamo comunque aiutarci tutti e possiamo provare stima
per gli altri senza insultarci, per cercare di rendere migliori noi stessi.
Questo
mio pensiero che ho avuto il piacere di condividere con voi, seppur era presente
in me anche prima dello scorso 11 Maggio, ma da allora è continuamente presente, come è
continuamente presente Marco che ricordo sempre, e sempre e comunque con grande
gioia proprio perché era veramente un ragazzo d’oro, e proprio in nome di
Marco, e di quello che era, che chiedo a voi/noi ucriesi, di smetterla di
screditarci l’un con l’altro e di sostituire questa tipologia di discussione
con atti e parole di stima e affetto l’un con l’altro.
Voglio
terminare questo mio pensiero, con il ringraziamento a Marco, che anche se non
è più in mezzo a noi, per tutti coloro che lo hanno conosciuto, e hanno avuto
l’opportunità di conoscerlo e di poterlo vivere anche per pochissimo tempo, è
stato ed è un esempio di come ci si debba comportare una persona in società,
soprattutto in una società come quella ucriese.
Ti
voglio bene Marco e grazie veramente per tutto quello che rappresenti, hai
rappresentato e continuerai a rappresentare per me.
Alla ricerca di luoghi perduti - Mario Nici -
Alla ricerca di luoghi perduti
- Mario Nici -
C'era una volta... “a taverna”, sembrerebbe l'incipit di una favola dei Fratelli Grimm; quello che oggi potrebbe apparire come il racconto immaginario di un tempo andato, un passato remoto e fantastico è invece il ricordo nitido reale di un luogo che ha segnato per tanti aspetti la storia del nostro piccolo borgo.
Sono nato ad Ucria verso la fine degli anni '50. Come tanti nati nell’entroterra ed in quel tempo ( era l'epoca dei convitti e dei collegi), ho vissuto due gioventù parallele, una studentesca nel capoluogo, l’altra nel paesello, qui riportato tutti i fine settimana dalle corriere sbuffanti delle autolinee AST e Ballato; la prima esistenza era preponderante sulla seconda. Ciò nonostante, ho avuto il tempo di vivere o quantomeno di imprimermi addosso, una “ucriesità” che mi ha plasmato carattere, gusto, giudizi.
Allora, frequentavamo un locale, divenuto nel tempo, storico punto di riferimento ucriese, che si chiamava “a taverna du Missinisi” o più semplicemente, unni u’ Missinisi. Stava sull'angolo sud-est del cuneo formato da via Rosario Baratta e via Padre Bernardino, con base Piazza Castello. Mi ci aveva portato, insieme ai miei inseparabili "fratelli" Maurizio e Rino, Turi Sciabulazza ed altri amici più grandi, in un sorta di condiviso e sottinteso amarcord; rivedo ancora oggi, con affetto, lo sguardo benevolmente ansioso dei fratelli "Simuni", Vincenzo e Nino Mancuso, all'atto del primo bicchiere, che era opportuno svuotare in un unico sorso; anche loro qualche tempo prima vi avevano celebrato il loro rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Unni u Missinisi, avvolto nel fumo blu delle Esportazioni senza filtro e delle Nazionali semplici, ho passato diverse ore dei miei week-end giovanili, quelli più belli, a tratti tumultuosi, quelli della formazione. E tra quei tavoli di legno grezzo come un’ anatra selvatica di Konrad Lorenz, ho ricevuto un irrevocabile imprinting.
Sì perché dal Missinisi abbiamo conversato, spettegolato, riso e deriso, ma anche progettato, ascoltato e discusso all’infinito di cose grandi, da come crescere per trasformarsi magari in “uomini grossi come alberi” (cit.: Paolo Conte,'82, “Diavolo Rosso” - Appunti di Viaggio-), a come formare liste per le prossime amministrative, o fare e disfare giunte, sia pure nella intenzioni e con alterne fortune, ma abbiamo soprattutto bevuto, bevuto i vini rossi che arrivavano dalla Solicchiata alle falde dell’Etna o dai territori assolati del pachinese, prima che il nerello mascalese ed il nero d’Avola, da sconosciuti umili vini rossi e mossi delle tavole contadine ed operaie, da tagliare con la gassosa Ciappazzi, divenissero cugini poveri bohémien di più nobili vitigni ed andassero loro stessi a tagliare per strutturare mostri sacri come il Brunello di Montalcino e il divin Barolo.
Bere quel vino, farlo da giovani “uomini”, nella Ucria in bianco e nero di quegli anni e in un luogo come l’osteria del Messinese, credo abbia inciso sui nostri caratteri così profondamente da influenzare e modulare le scelte successive, tanto nelle relazioni umane quanto più in generale nel modo di intendere la vita. Ed è avvenuto in modo così paradigmatico che io, antropologo dilettante dei fini settimana, non ho potuto esimermi dall’elaborare questa "purissima" teoria sul fondamentale ruolo formativo che questi luoghi perduti, ed in particolare i loro proprietari ( il mitico Missinisi: uomo apparentemente burbero ma di immensa umanità) ricoprivano nelle prime delicatissime fasi di apprendimento ed iniziazione di giovani, innocenti, bevitori di gassosa e aranciata Cucinotta (quale io ero fino a quel fatidico giorno).
Non v’è dubbio alcuno, infatti, che ben più di catechismi, libri di educazione civica, scuole e convitti, la prima fondamentale lezione di socializzazione vera, sul campo e non solo nella sfera teorica, ci sia stata impartita in quel luogo fisico venerabile, da maestri "illuminati". Li ti capitava di incrociare tutta l'intellighentzia locale: Iachino Allia, "u Maestru", di scuola e di vita; Gandolfo Di Maio,"u Dutturi" per antonomasia; u Camperi Bavó, memoria storica ucriese, enigmatico e magnetico come La Gioconda; Peppino Panzalorto, splendido visionario, irrefrenabile, il più grande e purtroppo sottovalutato pittore ucriese, e non solo, del XX secolo; Vincenzino Martelli, politologo raffinato alla grande scuola di Nino Gullotti; Vincenzino Scalisi, "u Mulinaru", persona colta a dispetto delle accademie mai frequentate, dall'umorismo bruciante, umanamente contagioso; Nunziato "Branca", l'archetipo universale della sapienza contadina e della sua voglia di riscatto, e persino il Sen. Luigi Genovese, legato alle sue radici come l'edera al suo muro. Ed accanto a loro tanti nomi, tante voci, tanti volti, molti dei quali, ormai, purtroppo sbiaditi anche nel ricordo. Per noi giovani iniziati era sempre un' emozione grande, quasi come quella raccontata da Franco Battiato quando "un giorno sulla prospettiva Nevski per caso vi incontrai Igor Stravinsky". Una palestra di vita. Lì chiusi, tra le pareti liquide di bicchieri, quartini e bottiglie disordinate, la nostra intelligenza sociale si è costruita, il nostro istinto relazionale affinato, i filtri attivati, lì abbiamo appreso il linguaggio dei gesti e della mimica facciale con le sue infinite sfumature predittive o rivelatrici, in una sola parola l'arte di conoscere persone e cose; abbiamo anche appreso, non senza cadute e ricadute, che bere bene è meglio che bere tanto e che un buon bicchiere di vino aiuta di più di un fundador o di una vodka al melone.
Il proprietario, don Peppino, era il più grande di tutti. Aveva un compito fondamentale, socialmente rilevante, infinitamente utile quanto incautamente (da qualcuno) sottovalutato. Era il Preside della Scuola. Il regista del film, anzi dei films (la sua taverna era un multisala ante-litteram). Ed era un grande regista, perché le recite non erano mai a soggetto, non vi era copione, né comparse o primi attori, né trucco, né inganno. Tutto all’impronta . Mi piace pensare che se Federico Fellini, si fosse trovato per avventura da quelle parti, altro non avrebbe desiderato fare che sedere ed imparare. Don Peppino era un vulcano in perenne eruzione: gestiva, proponeva, moderava, accendeva e poi spegneva, dispensava, sanzionava. Il tutto con bonaria furbizia e sapienza antica. Aveva un suo codice non scritto, ma ben definito e quasi scolpito in trasparenza nell’aria densa e vaporosa del locale. Dopo un po’, se non eri tonto, lo imparavi e ti regolavi di conseguenza: 1) avventori occasionali, qualora sgradevoli, solo vino dalla botte che cominciava a "spuntiari"; 2) avventori abituali, vino, gassosa e qualche uovo sodo; 3) avventori graditi, vino, panini caldi di don Turiddu ‘u furnaru e mortadella profumata (dalla bottega comunicante); 4) avventori particolarmente graditi, vino da' "sacristia", brucculeddi ‘ffucati cu sutt’e supra e pani i casa, dopo trasferimento, al momento opportuno, nel sancta sanctorum: un piccolo locale attiguo, provvisto di cucinino a due fuochi regolarmente inscritto tra due trecce di aglio e peperoncino ai lati, relativamente angusto e con arredamento spartano, ma per tutti noi prezioso come un tabernacolo. Il codice era democratico ed apolitico e veniva applicato alla lettera e con rigore, non avendo sorprendentemente Don Peppino alcun scopo di lucro. Né poteva essere altrimenti, considerata la qualità della persona.
In questi luoghi, purtroppo perduti, e ce n'erano parecchi - unn'a Durnisi, unni Turi Capuni, unni Paladina, unni Minìu - ci siamo formati, siamo umanamente cresciuti, abbiamo acquisito piccole, magari infinitesimali, sicuramente frammentarie, ma comunque forti e persistenti consapevolezze di noi, degli altri e del mondo.
Oggi di questi luoghi di convivio, dall’aura vagamente romantica, resta niente o quasi niente, purtroppo; trovare una vera taverna/osteria dove potersi fermare a fare due chiacchiere conviviali tra amici, sentendosi a casa, davanti ad un bicchiere di vino è ormai un racconto di favole. Sono nati al loro posto i pub, i win bar, ma le loro stesse denominazioni 2.0 escludono in nuce la magia di quella tradizione.
E mi viene in mente, non senza malinconia, il film "La Cena" di Ettore Scola, il maestro della caratterizzazione "a tipage", un sorprendente affresco di umanità multicolore ove è tangibile e struggente il senso di alienazione dei vari personaggi. Ambientato in una osteria romana, nel film si vede gente diversa, ognuna con la propria storia, le proprie angosce, ognuna terribilmente derelitta, dove, tuttavia, l’ambiente conciliante e familiare permette loro di godere alla fine della compagnia degli astanti. Il più sereno è paradossalmente il più solo, un anziano Vittorio Gassman, cliente fisso del locale, che dal suo tavolo solitario, sera dopo sera sconfigge la solitudine.
Avevo in passato postato questo mio ricordo su un sito FB e mi ero visto accusare di Elogio dell'Alcolismo, senza la fortuna però capitata ad un altro signore molto più illustre di me, un certo Erasmo da Rotterdam, famoso per un altro Elogio, quello della Follia; probabilmente quel giudizio negativo era solo ironico; comunque sia, mi sento di riproporlo convinto come sono che non c’era solo vino nell’osteria di una volta. C’era molto di più.
PENSIERI: SAPER INVECCHIARE - Rita Paladina -
PENSIERI
Rita Paladina
SAPER INVECCHIARE
Sei vecchio non quando hai una
certa età
ma quando hai certi pensieri.
ma quando hai certi pensieri.
Sei vecchio quando ricordi le
disgrazie e i torti subiti,
dimenticando le gioie che hai gustato e i doni
che la vita ti ha dato.
dimenticando le gioie che hai gustato e i doni
che la vita ti ha dato.
Sei vecchio quando ti danno
fastidio i bambini
che giocano e corrono, le
ragazzine che cinguettano,
i giovani che si baciano.
Sei vecchio quando
continui a dire che <bisogna tenere i piedi per terra>,
e hai cancellato dalla tua vita la fantasia, il rischio,
la poesia, la musica.
continui a dire che <bisogna tenere i piedi per terra>,
e hai cancellato dalla tua vita la fantasia, il rischio,
la poesia, la musica.
Sei vecchio quando non gusti più
i canti degli uccelli,
l'azzurro del cielo, il sapore del pane,
la freschezza dell'acqua, la bellezza dei fiori.
l'azzurro del cielo, il sapore del pane,
la freschezza dell'acqua, la bellezza dei fiori.
Sei vecchio quando pensi che sia
finita per te
la stagione della speranza e dell'amore.
la stagione della speranza e dell'amore.
Sei vecchio quando pensi alla
morte
come al calar nella tomba, invece che come
al salire verso il cielo.
come al calar nella tomba, invece che come
al salire verso il cielo.
Se invece ami, speri, ridi,
allora Dio allieta la tua giovinezza
anche se hai novant'anni.
( Anonimo)
allora Dio allieta la tua giovinezza
anche se hai novant'anni.
( Anonimo)
COME SI FACEVA IL BUCATO ANTICAMENTE: A LISCIA - Antonina Maria Orifici –
COME SI FACEVA IL BUCATO ANTICAMENTE: A LISCIA
|
- Antonina Maria Orifici –
In dialetto
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Anticamente i fimmini chi cufini supra la testa chini di robi,
s'innievanu a lavare to sciumi.
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Chiddu era lu postu pi lavari , lavavano ca ciniri (o rannu) e
l'acqua, chiamata a cussi pirchi i robi vinevunu bianchi e si facia a liscia
o bucatu.
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Traduzione in Italiano
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Anticamente le donne con le ceste sopra la testa andavano a
lavare nel fiume ,quello era il posto per lavare, lavavano con la cenere e
chiamata (Rannu), così che i panni venivano bianchi era così che si faceva il
bucato.
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Preparazione del
bucato a lascia: In dialetto
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Si virsava acqua e ciniri to quadaruni e si dumava u focu si
tinia dui uri si priparava u cufinu e si mittia una tila di cutuni d'intra ,
biancu, a bianchiria si lavava supra a cciappa ta gibbia o sciumi ,poi si
mittia to cufinu poi supra si appuggiava un tuvagghiuni to mezzu si virsava
l'acqua ,u tuvagghiuni trattinia a ciniri e si facia ripusari una notti pi
culari l'acq-ùa pio a matina si livava u tuvagghiuni e la ciniri chi ristava
e si purtava n'atra vota o ciumi o a gibbia pi sciacquarla.
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In
italiano
Si versava acqua e cenere in un
recipiente si accendeva il fuoco e si lasciava per 2 ore intanto si preparava
una cesta e dentro si metteva una tela bianca.
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La biancheria si
lavava sopra una pietra o nella gibbia
(vasca in pietra che si trovava all'aria aperta contenente acqua sorgiva) al
fiume poi si metteva dentro uno strofinaccio in mezzo si metteva l'acqua, lo
strofinaccio tratteneva la cenere e intanto scolava e si faceva riposare una
notte si doveva tenere così per togliere la l'acqua ,la mattina si lavava il
tovagliolo e la cenere che restava e si portava di nuovo al fiume o alla vasca per sciacquarla.
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Conclusione
Poviri fimmini n'un ni putevunu chiù i tempi antichi nun erunu
comu ora cu tutti i granni comodità ni lamintamu sempri sempri. Nun semu mai
cuntenti mugghi i tempi moderni avemu i detersivi avevu tuttu. Nun ci manca
nenti. Secunnu vuatri su meghiu i tempi d'una vota? o chiddi d'oggi?
Parlamuni chiaro. Secunnu commu a pensu ia, mugghi la modernità e vatri
tuttti fimmini?
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LA FONTANA - Angela Niosi -
LA FONTANA
- Angela Niosi
-
Ogni quartiere ne aveva una.
Sporgeva dal muro
con un rubinetto a forma di margherita che finiva con una piccola
proboscide; di solito era arrugginito e si faceva fatica a girarlo. In più,
c’era sempre qualcuno con una forza superiore che l’avvitava così stretto- per
non farlo gocciolare e quindi spardare acqua - si giustificava, che ci voleva
una forza equivalente per riaprirlo.
Sotto alla fontana, un semicerchio di pietra circondato
da un cordolo, permetteva di appoggiare secchi, bagnaroli, bumbuli e quartari
che venivano riempiti per le necessità della casa.
Bisognava andare all’ora giusta perché , se ci andavi
nell’ora di punta, rischiavi di rimanere in attesa anche delle ore. Non era in
vigore il rispetto della fila, c’era sempre il prepotente che aveva delle
improbabili incombenze che l’aspettavano. I bambini, poi, erano sempre ultimi.
Se il recipiente era grande, si andava in due e bisognava
essere ben sincronizzati nel trasporto, altrimenti rischiavi di rovesciarne una
buona parte lungo il tragitto per via dell’ondulazione che faceva sollevare
piccole onde dispettose. Si arrivava a casa sempre mezzi bagnati.
Circolava una leggenda che sentivo raccontare da bambina.
Si sussurrava che ,di notte, uscivano le magare, sorta di streghe dotate di
poteri malefici. Anche esse andavano a rifornirsi d’acqua alle fontane. Per
potersi servire senza essere disturbate, urlavano e facevano un fracasso di
pentole allo scopo di spaventare le donne che
si recavano a riempire i recipienti a quell’ora ,per trovare la fontana
più libera dall’affollamento del giorno.
In seguito, ho scoperto che non era affatto così.
La verità era che
le urla e il rumore erano provocati da qualche burlone, per fare piazza pulita dei clienti notturni della fontana che fuggivano via
terrorizzati. Ricordo che ero rimasta delusa da questa spiegazione razionale.
Preferivo immaginare streghe forsennate sospese a mezz’aria, lunghi capelli
neri e bocche sdentate, anche se ne avevo un po’ paura.
Ma la regina, per me, era lei: la fontana di via Pozzo.
Era diversa
dalle altre.
Non ti accorgevi di essa fin quando, arrampicandoti lungo
la via che sbandava in curve asimmetriche,non
te la trovavi di fianco. Ne sospettavi la presenza solo un po’ prima di
vederla, nel breve rettilineo che
interrompeva la salita dove ansimavano
le macchine che parevano sempre sul punto di scivolare all’indietro.
Prima scorgevi un accenno di pancia e, quando arrivavi al
breve tratto pianeggiante, lei si mostrava in tutta la sua bellezza. O, almeno così sembrava a me.
Sospesa, assomigliava ad una acquasantiera. Era perennemente umida , con
una peluria di muschio incollata al muro attorno al rubinetto.
L’acqua che ne fluiva era freschissima, le sue erano
nobili origini, proveniva infatti da una sorgiva di un monte incantato.
Dava ristoro ai passanti che si fermavano presso di lei
per rinfrescarsi la bocca oltre che
riposarsi dalla fatica della ripida salita.
Dava ristoro ai bambini, che spintonandosi per la fretta
di riprendere i giochi,attaccavano il muso alla proboscide e bevevano avidamente per combattere la calura delle pazze corse
estive, e poi si asciugavano la bocca gocciolante con il dorso della mano.
Io la consideravo
mia per il fatto che si trovava vicino alla mia casa dalla quale era separata da una lunga scalinata ,occupata
abusivamente da fastidiose ortiche.
Ne ero quasi gelosa e,quando capitava che il rubinetto si
guastasse lasciando scorrere senza controllo l’acqua preziosa, soffrivo con lei
e chiedevo con insistenza a mio padre di trovare un rimedio.
Un brutto giorno
trovai , sopra l’attaccatura del rubinetto ,una scritta stilata con
vernice rossa.
Diceva, ma a me pareva che gridasse, “ACQUA NON
POTABILE”. Dai discorsi dei grandi, capii che erano stati trovati animali morti
dentro il condotto. Fu,
per me, un grande dolore!
UCRIA: RELIGIOSITA’ E LEGGENDA DELLA CHIESA MADRE - Nino Algeri –
UCRIA: RELIGIOSITA’ E LEGGENDA DELLA CHIESA MADRE
- Nino Algeri –
La religiosità del paese di Ucria si perde nella notte
dei tempi, lo testimoniano le numerose chiese che c’erano in questo paese.
In esso, infatti, fra quelle esistenti e dai toponimi che
vi sono, si può ricostruire che c’erano ben 13 chiese e tre conventi.
Le chiese che ancora esistono sono: Chiesa Madre, Chiesa Maria
SS. del Carmine, chiesa Maria SS. dell’Annunziata, Chiesa del SS. Rosario, Chiesa di Maria Vergine, Chiesa della Santa Croce, Chiesa di San Michele, Chiesetta del Taro.
Dai toponimi possiamo dedurre che esisteva la chiesa di San Luca (’nto chianu i Santu Luca)
oggi piazza dell’Emigrante, chiesa di
San Nicolò, nel rione San Nicolò, ove c’è l’attuale plesso scolastico,
chiesa di Santa Caterina, in
contrada Santa Caterina, chiesa di Santa
Maria della Scala, i ruderi della quale ancora esistono in prossimità della
chiesa del SS. Rosario, si ha sentore di una altra chiesa di Santo Antonio, che doveva essere all’incirca in prossimità
del ponte ove era la fontana Famiglia,.
Esistevano anche tre conventi: uno, dei padri domenicani,
era in prossimità della chiesa del SS. Rosario, distrutto quando è stato
ampliato il cimitero, uno. dei frati minori francescani, era in prossimità
della chiesa della SS. Annunziata, chiamato
” ‘U Convintinu’ “ che da il
nome alla Via Conventino ed uno abitato dalle suore benedettine era l’attuale
plesso scolastico chiamato ’Badia’.
La chiesa più importante del paese è la Chiesa Madre, all’origine della sua
costruzione vi è una antichissima leggenda che i nostri nonni non si stancavano
di raccontarci.
Si narra che alcuni viaggiatori giunsero al paese ( forse
allora villaggio) di Ucria portando sulle spalle la statua nera del Cristo, qui
furono sorpresi da un improvviso temporale e trovarono rifugio proprio nel
punto ove oggi sorge la chiesa.
Passato il temporale cercarono di sollevare la statua per
poter proseguire il loro viaggio, ma era diventata così pesante che non
riuscirono a sollevarla da terra, allora decisero di lasciarla in quel posto e
cercarono di costruire una piccola cappella per ripararle dalle intemperie.
La cappella appena
finita, crollò misteriosamente, i viaggiatori impressionati da questo fatto
inspiegabile, cercarono di costruirne un’altra più grande e con più cura, ma
anche questa crollò; non sapendo cosa fare, gli ucriesi pregarono il Cristo di
avere pietà di loro e di dare un segno per poter capire come voleva fosse
costruita la cappella.
Durante la notte una fitta nevicata lasciò libero un
pezzo di terreno ove non cadde neanche un fiocco di neve, quel segno è stato
interpretato come il volere del Cristo, su quell’area venne costruita la chiesa.
Da quel momento il Cristo venne chiamato Signore della Pietà, perché aveva avuto
pietà dei disperati ucriesi.
La chiesa ha auto successivi abbellimenti e rifacimenti e
sul bellissimo altare della navata centrale è posta la statua del Signore della
Pieta.
Come le persone
più avanti con gli anni possono ricordare, la volta dell’altare maggiore era
abbellita da un ’Padre Eterno’ in mezzo a delle nuvole con le braccia aperte, quasi
ad accogliere i fedeli che entravano, ma negli anni 60, durante alcune
ristrutturazioni fatte nella chiesa, è stato coperto con della pittura gialla.
A STORIA DA MATRICI
Tridici chiesi beddi c’erunu
cca,
ma ’a Matrici eni ’a cchiu bedda
chi ci sta
’a ficinu quantu Gesù Cristu ’a votti ranni
e di allura passanu quasi quattrucent’anni.
Si dici, infatti, chi certi viannanti
Stavunu
passannu pi sti canti
quannu un
forti malu tempu
’i
costringiu a truvari scampu.
Si firmanu ’nta sti terri pi si riparari,
di cca nun si nni pottunu cchiu annari.
D’’u Signuri a Pietà, ’a statua chi purtavunu
ad arzarila, dopu ca pusanu, nun ci ‘a facivunu .
A Iddu domannanu sti povvureddi allura
quantu
avia essiri a chiesa di misura;
duranti
’a notti, lassau, una nivicata
libiru
’nu spaziu e ddd fu custruita.
’A chiesa fu fatta a rannizza d’ora
e fu abbillita dintra e di fora.
Ô Signuri a Pietà assai cci piaciu,
fu ccussi chi cu navutri ristau.
A
picca a picca ’u paisi fioriu,
’a
chiesa sepri cchiu bedda divintau,
ci
misunu marmi, statui e quatri
chi
sunu l’unu megghiu di l’atri.
Puru Gaggini ’nta sta Matrici
una statua di marmu cci fici.
’Nta navata centrali, a l’artari maggiuri
avi ’u posto d’onuri Nostru Signuri.
Avia anciuli e colonni pitturati
E un Patreternu chi brazza arzati,
ma a carcunu nun ci piacìu,
ca pittura gialla ’u calncellau.
St’artari,ora, pari spugghiatu,
pari un cristianu cu capu tusatu,
trasennu ’nta chiesa nun c’è ddu
timuri
chi picciriddu mi inchia i
russuri.
Avimu bisognu, ora, na cosa ,
prigamu pi chistu a Santa Rosa,
un miraculu mi faci ’u Signuri
pi turnari com’era l’artari Maggiuri.
Nino Algeri
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STORIA DELLA CHIESA MADRE
Tredici chiese c’erano in questo paese
ma la matrice è la più bella di tutte
l’hanno fatta quanto l’ha voluta Cristo
e da allora sono passati circa quattocent’anni.
Si dici, infatti, che certi viaggiatori
stavano passando da queste parti
quando un forte temporale
li costrinse a cercare un riparo.
Si sono fermati su questa terra per ripararsi
e di qua non sono più potuti andare via.
La statua del Cristo della Pieta che portavano,
dopo averla posata, non ce la facevano a sollevarla.
Allora, questi poveretti hanno chiesto a Lui
quanto doveva essere grande la chiesa;
durante la notte una nevicata , ha lasciato
libero uno spazio, e la è stata costruita(la chiesa)
La chiesa fu fatta della grandezza che ha ora
ed è stata abbellita dentro e fuori:
al Signore della Pieta è piaciuta molto
fu per questo che rimase con
noi.
A poco a poco il paese si è ingrandito,
e la chiesa è diventata sempre più bella,
hanno messo marmi statue e quadri
che sono uno più bellu dell’altro.
Pure Gaggini in questa Chiesa Madre
ha fatto una statua di marmo.
Nella navata centrale, sull’altare maggiore
ha il posto d’onore Nostro Signore.
L’altare ha angeli e colonne pitturate
E( nella volta)n Padre Eterno con le braccia alzate,
ma a qualcuno non è piaciuto,
lo ha cancellato con la pittura
gialla.
Quest’altare ora sembra spoglio
sembra una persona con la testa rasata,
entrando in chiesa non c’è quella emozione
che bambino mi faceva arrossire.
Ora abbiamo bisogno di una cosa
Preghiamo(perché interceda)
Santa Rosa
Affinché Cristo della Pietà faccia il miracolo
di far tornare com’era l’altare maggiore.
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