A BARRACCA
- Giuseppe Salpietro -
La “barracca”, nome non certo bello che istintivamente
sembra evocare la precarietà di una struttura provvisoria, un luogo coperto ma
cadente, una sorta di tugurio, talmente negativo nel suo significato letterale
originario, da fare diventare giallo
dalla bile un qualunque esperto di marketing del “food and beverage”.
Nel caso specifico dei diversi
esercizi commerciali così denominati, ancora oggi esistenti nel territorio
ucriese in grado di esprimere al meglio forti connotazioni di territorialità e
genuinità, il nome sembra originariamente riconducibile alla modestia complessiva
di quanto offerto al cliente, solo apparentemente lontano dalla osteria dove si
bevono pasti alla buona accompagnati da ottimo vino, dalla trattoria che sembra
meno popolare nel servizio, o dal ristorante nobilmente discendente dal
francese “restaurer” per indicare che in quel luogo si trova ristoro.
Non sembra quindi evocare il ristoro, ma era luogo accogliente e caldo per i numerosi
contadini ed allevatori di greggi al pascolo che a sera, non potendo fare
ritorno al paese per le necessità del governo degli animali o per procedere già
dalle prime luci dell’alba successiva ai lavori preparatori della mietitura, accontentandosi
di giacigli di fortuna nelle diverse
“casotte” poste tra la località Piano Campo e Floresta, si davano lì convegno
per il sonoro chiacchiericcio, assolutamente inconsapevoli delle tendenze
modaiole degli anni a venire che avrebbero reso partecipi i loro nipoti e
pronipoti al frastuono della movida di Milano e dei suoi Navigli.
In quella vasta area, il forte
terreno era prevalentemente coltivato a grano, e certo di giornate lavorative
ne necessitavano un’infinità per compiere tutte le pesanti attività manuali che
precedevano l’agognata mietitura di fine giugno o la semina a “spaglio” del
freddo novembre.
Nelle “barracche” di un tempo, talvolta quello che oggi appare ordinario, non era
contemplato. Per capire il senso della conosciuta normalità diffusa che
appartiene al recente, bisognerebbe avvertire, anche solo per qualche istante,
la privazione di un comunissimo ausilio. In tal senso, sarebbe sufficiente
provare a staccare la corrente elettrica di casa per alcuni minuti ricreando
sensazioni di intimo smarrimento. In sostanza, la corrente elettrica a monte
del paese di Ucria, si fermava appena fuori le sue porte e le contrade erano
solo punteggiate quà e là dalla luce fioca e “ballerina” dei lumi a petrolio. Ma
l’ingegno nelle barracche come sempre suppliva alle carenze, e per superare l’oggettivo
impedimento della inesistente elettrificazione che a sera faceva calare un buio
pesto da “tagghiari cu cuteddu”, si posizionavano nei pochi ambienti disponibili
delle bombole di gas dotate di un tubo metallico montato verticalmente sulla
manopola di erogazione, alla cui sommità una garza incandescente, riparata dal
venticello mediante vetri opachi, diffondeva quel minimo di luce che favoriva:
le bevute di vino allungato dalla “gazzosa”, la ricerca degli accordi dei
suonatori di strumenti tradizionali, il raro “schiticchio”, l’immancabile gioco delle carte e talvolta gli
“strepiti”.
E che dire dell’optional che una di
esse, quella del caro Sebastiano Maturi detto “ u Rizzu ”, offriva come dote
unica. Tale, infatti, era il refrigerio fornito dall’acqua corrente della
“biviratura” dove le bottiglie di birra
Messina, di aranciata e chinotto Giuffrida e di gassosa Cucinotta, disordinatamente
adagiate in una bagnarola di metallo riposta in una sorta di incavo a forma di
pozzetto, si ghiacciavano naturalmente allo scorrere incessante dell’acqua
fredda per il piacere dei poco esigenti ospiti.
Anche Ucria ebbe per alcuni anni la
propria fabbrica di bevande gassate. Essa era ubicata nei locali dell’ex cinema
di via Padre Bernardino ed i suoi prodotti erano chiamati “Monte Castello”,
anticipando la voglia di identità territoriale in un chiaro richiamo evocativo
al luogo di produzione.
L’abbeveratoio però, giustamente, non
serviva soltanto a raffreddare le “gazzose”. Numerosi erano gli armenti che ad
orario pre-determinato, come fossero orologi svizzeri, lì giungevano per
dissetarsi dopo ore di arsura patita nei vicini pascoli facendo abbassare in un
sol colpo a meno della metà il livello del prezioso liquido raccolto per
l’incessante flusso. Immancabilmente, i ruminanti certificavano il loro
passaggio, lasciando sul piccolo piazzale in cemento grezzo un “ricordo”
certamente non gradito all’operoso oste-gestore e alla sua infaticabile
consorte Sara. Grandi come torte nuziali a più ripiani, gli escrementi erano disseminate
in ogni angolo in “quantità industriale”.
Era come se il luogo favorisse il
rilascio silenzioso,
a cui puntualmente seguiva un sommario lavoro di ripristino delle condizioni
antecedenti il passaggio, mediante energiche e “mirate” secchiate di acqua
graziosamente risparmiata dalle assetate bestie.
Uno degli attrattori di clientela dal palato esigente era “u campanaru”, abilmente posto in bella mostra
sia nelle barracche che avevano effettuato la macellazione di recente, che in
tutte le macellerie al tempo numerose del paese. Erano le interiora, esposte in
un tutt’uno anatomicamente ancora integro, eccetto
il budellame: polmoni, fegato, milza, rognoni … ; ma non mancava, in
alternativa, l’esposizione fiera come fossero trofeo di caccia, di altre parti
rigonfie opportunamente agganciate anch’esse ad un resistente uncino
posizionato in prossimità dell’ingresso dei locali di vendita e lasciate
ondeggiare come fossero palloncini al vento. Vera festa culinaria che attirava
quali commensali: api grandi quanto
elicotteri ultraleggeri, mosche dal colore verdastro ed insetti vari.
Nelle barracche, talvolta si
macellava autonomamente quanto necessario per i previsti consumi degli ospiti e la carne del
malcapitato “castro” veniva poi riposta, non ancora sezionata, in un capiente vano
ricavato nello spesso muro riparato da una “moschiera” ad ante verticali che lo
rendeva inaccessibile ai voraci sciami di insetti. Prima della “rustuta” però,
non poteva mancare la quasi quotidiana visita del veterinario, annunciata da
qualche colpetto rauco di clacson tipico delle vecchie utilitarie, che ne
certificava lesto la salubrità disseminandola di timbri di colore blu apposti
con energia in ogni singola parte.
E’ normale oggi pensare a pietanze elaborate idonee a soddisfare le
mutate esigenze dei clienti, ma il menù fino a qualche anno addietro era rigorosamente
unico: giardiniera, salame e provola (per i più esigenti), pane di casa e
castrato arrosto.
Chiedere altro sarebbe apparso come
una violazione delle autentiche vocazioni locali, offensivo e provocatorio per
il gestore.
Nuvole di fumo
si alzavano dense e profumate al “salmoriglio” a tutto guadagno della sapiente
cottura, delle papille gustative che sollecitate procuravano una irrefrenabile
deglutizione a chiaro sintomo di un atteso appagamento e dell’odore del
vestiario che ne restava irrimediabilmente impregnato.
Un’arte anche quella. Rimarrà mistero
perché la medesima carne, se cotta fuori dal comprensorio, pur utilizzando i
medesimi profumati ingredienti nel preparare “u sammurigghiu”, non abbia mai avuto
lo stesso sapore di quella cotta e consumata in loco.
E poi, come non fidarsi muti rispetto
alla scritta vergata da un estroso e poliedrico artista locale, che campeggiava
come motto all’ingresso della “barracca du Rizzu”:
“Se vuoi vivere lieto e sano, vieni a mangiare da Bastiano”.
Ed allora fidiamoci, anche le “barracche”
hanno grandemente contribuito a creare quell’irresistibile fascino territoriale
che ha fatto conoscere il territorio nebroideo ai tanti. Senza polemica, realisticamente a “panza” ha convinto più dell’arte,
della cultura, delle tradizioni popolari, della memoria.
D'altronde, volendo fare una inopportuna, ma efficace similitudine, tira
più … che un carro di buoi.
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