domenica 22 febbraio 2015

IL MESTIERE DEL MEDICO – 2

IL MESTIERE DEL MEDICO – 2
 - Mario Nici -
"Allo stesso modo di Auschwitz, il cancro è la prova della non esistenza di Dio".
"Vivo da sempre una situazione di schizofrenia. Sono l'uomo della speranza, però immerso ogni giorno nel dolore. ...sono angosciato, tormentato, sento un nichilismo alla Nietzsche, porto dentro di me la fossa comune di tutti i pazienti che ho perso";  da "Il mestiere di un uomo" - Einaudi, 2014 - di Umberto Veronesi. 
Non so perché Umberto Veronesi scopra solo adesso di essere così nichilista e solo ora dichiari questa sua condizione esistenziale di perdurante schizofrenia. Probabilmente è l'età avanzata che lo induce alla malinconia, dato che non se ne scorgeva traccia fino a poco tempo fa. "Morirà di vecchiaia", era il suo refrain, e lo diceva a tutte, anche alle pazienti in stadio avanzato, che, dati clinici alla mano, non avevano alcuna speranza di sopravvivere.
Comunque sia, conosciamo tutti Veronesi: medico chirurgo oncologo di fama internazionale, attuale Direttore scientifico dell'Istituto Europeo dei Tumori, da lui fondato, già Direttore dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, tra i fondatori dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), nonché uomo politico, già ministro della sanità, assai apprezzato. Il suo curriculum, la carriera e la vita, ne fanno una personalità di altissimo livello le cui "parole sono come pietre", per citare Carlo Levi, e quindi andrebbero meditate. Come mai solo ora si accorge di quanto piena di persone e di dolore sia la sua fossa comune? Non dovevano morire di vecchiaia? E perché quale "uomo della speranza", come si autodefinisce, privarle pure del conforto del loro Dio? 
La recente vicenda drammatica di Charlie Hebdo deve servire ancor più di prima ad aprire una profonda riflessione sul tema di Dio. Sono stato tra i pochi che non si sono associati all'hashtag  #jesuisCharlieHebdo,  non certo per difetto di solidarietà, ma per altri motivi che ho cercato di spiegare e che, in estrema sintesi, riguardano la figura di Dio che va rispettata e maneggiata con estrema cura e cautela. Non mi riferisco, naturalmente, all' "Allahu Akbar" urlato dal terrorista islamico mentre esplode e fa esplodere, né  al "Gott mit uns (Dio è con noi) che campeggiava sulla fibbia dei cinturoni delle Schutz Staffeln di Adolf Hitler, nè al "God bless America" con cui concludeva i suoi discorsi Harry Truman prima e dopo l’apocalisse atomica di Hiroshima e Nagasaki.  Mi riferisco al Dio vero, quello degli umili, delle periferie del mondo, quello che rappresenta, per il credente, l'Alfa e l'Omega- il Primo e l'Ultimo- il Principio e la Fine, mentre, per il non credente, è quell'Entità riconducibile all'essenza stessa dell'uomo, che sente l'esigenza di credere in qualcosa non potendo accettare che la vita non abbia un senso; per dirla con Karl Marx: "il sospiro o singhiozzo della creatura oppressa, l'anima di un mondo senza cuore",. Se questo concetto di Dio vale come teoria generale dell'essenza umana, per tutte le religioni e per chi non ha religioni, a maggior ragione deve valere per quel medico, che constatato il suo fallimento come uomo di scienza, non può negare a chi soffre e si è a lui affidato il conforto estremo del suo Dio, fosse anche un surrogato, allo stesso modo con il quale non gli nega la morfina nel dolore terminale, o il Temgesic, surrogato di sintesi della prima. 
Mentre secondo Veronesi, “nessun Dio può riscattare l'uomo dalla sua sofferenza...Come puoi credere nella Provvidenza o nell'amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori...che perdono un figlio malato di tumore?”. Naturalmente Veronesi é libero di esprimere le sue convinzioni, che però neanche esse sono la verità rivelata. Mio padre e mia madre trovarono nel conforto della fede il lenimento al dolore per la perdita lacerante del loro Enrico, morto di leucemia a soli otto anni. Inoltre trovo che questo agnosticismo, insistentemente esibito in tutti i media come un trofeo, proprio in occasione della presentazione o vernissage, come usa dire oggi, della sua ultima fatica editoriale, sia sospetto e comunque apra uno squarcio profondo nell’anima di chi, ammalato di cancro o comunque coinvolto per amore, trova nella fede una luce di speranza o ancora peggio di chi, brancolando smarrito ed impaurito dentro il crepuscolo doloroso e solitario [nessuno è più solo di chi si approssima a morire] della sua esistenza, crede infine o si illude di trovarvi una qualche traccia di luce. 
Non ce l'ho naturalmente con il Veronesi che non crede in Dio, perché la fede è un prezioso dono, e sarebbe ancora più ipocrita far finta di possederlo. Ce l'ho con il Veronesi che porta, come prove della non esistenza di Dio, un fatto crudele ma naturale come la malattia oncologica, in parte provocata, come è oggi ampiamente dimostrato, dalla condotta sconsiderata dell'uomo, o un fatto efferato e criminale come lo sterminio dell'uomo sull'uomo, questo si imputabile, interamente, all'empietà dell’ uomo.  Se é vero come é vero che non c'è nessuna evidenza scientifica dell'esistenza di Dio, é altrettanto vero che nessuna prova scientifica può essere invocata a sostegno della sua negazione, tantomeno quelle soggettive emozionali avanzate dal professor Veronesi.  Affermarla su queste basi é un atto di pura arroganza, a meno che non si voglia pensare a Dio come a Spider Man o altro superuomo dei fumetti della Marvel che accorre in picchiata ad ogni nostro bisogno e con triplo salto mortale capriato con avvitamento ci salva dall’imminente pericolo.
Mi sono ritrovato alcuni anni fa in una corsia del reparto di oncologia medica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano; era l’antivigilia di Pasqua, la giornata volgeva al termine ed era rimasto solo il personale sanitario di turno, appartato nelle proprie stanze;  nel reparto semi vuoto, quasi desolato, il senso d’attesa per la festa imminente, ed a noi in quel frangente negata, mi rendeva ancora più gravosa, claustrofobica,  quella permanenza, tuttavia non riuscivo ad andarmene benché fosse scaduto ampiamente l’orario delle visite e fossi già stato richiamato; l’idea di lasciar sola la persona a me cara mi inchiodava là nonostante l’angoscia crescente, finché ad un tratto vidi i suoi occhi illuminarsi: sullo schermo del piccolo televisore nero appeso alla parete disadorna era comparso il viso dolcissimo e rassicurante di Giovanni Paolo II che fortemente sofferente si apprestava a celebrare la Via Crucis ed aveva già rivolto un saluto a tutti gli ammalati; ho capito subito che non era più sola e così mi sono accomiatato del tutto rasserenato. Uscendo salutai la signora della stanza attigua che avevo avuto modo di conoscere; era anch’essa sintonizzata sulla Via Crucis e serrava un piccolo rosario di legno tra le sue dita quasi cianotiche.
Qualche anno dopo, su desktop del portatile di mia sorella Maria Rita, trovai un foglio word su cui riportava, tra altre notazioni personali, le parole di "Orme sulla sabbia": 
"...Così sono andata avanti, finché tutti i miei giorni si esaurirono. Allora mi fermai guardando indietro, notando che in certi punti c'era solo un'orma... Questi posti coincidevano con i giorni più difficili della mia vita; i giorni di maggior angustia, di maggiore paura e di maggior dolore. Ho domandato, allora : "Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me in tutti i giorni della mia vita, ed io ho accettato di vivere con te, perché mi hai lasciata sola proprio nei momenti più difficili?". Ed il Signore rispose: "Figlia mia, Io ti amo e ti dissi che sarei stato con te e che non ti avrei lasciato sola neppure per un attimo: i giorni in cui tu hai visto solo un'orma sulla sabbia, sono stati i giorni in cui ti ho portata in braccio".
Esplorando la cronologia vidi che quello era il suo ultimo accesso, prima di aggravarsi ed entrare in coma. Sono sicuro che non se ne sia andata disperata, e lo sono anche perché, poco tempo prima, in pieno benessere, aveva a me espresso con grande serenità, come se stesse parlando di una gita fuori porta, il desiderio di una tomba esposta alla luce. Era la stessa LUCE che si portava dentro e che nessun medico, per quanto luminare, potrà mai spegnere. 
A questo punto, cosa importa se Dio esiste o no?  Quello che conta, e che deve essere particolarmente evidente a chi fa questo mestiere, è che la sfera spirituale è un momento inalienabile dell’assistenza globale al paziente oncologico perché Dio, quale che sia la sua definizione, è oltremodo presente nella vita residua di questi malati e in quelle dei loro familiari, e da loro consolazione. Quella che noi medici grandi o piccoli che siamo, con i nostri farmaci più o meno miracolosi, con le nostre grandi o piccole certezze,  con la nostra grande o piccola supponenza non potremmo mai offrire ed a maggior ragione negare.




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