IL MESTIERE DEL MEDICO – 2
- Mario Nici -
"Allo stesso modo di Auschwitz, il
cancro è la prova della non esistenza di Dio".
"Vivo da sempre una situazione di
schizofrenia. Sono l'uomo della speranza, però immerso ogni giorno nel dolore.
...sono angosciato, tormentato, sento un nichilismo alla Nietzsche, porto
dentro di me la fossa comune di tutti i pazienti che ho perso"; da "Il mestiere di un uomo" -
Einaudi, 2014 - di Umberto Veronesi.
Non so perché Umberto Veronesi scopra solo adesso di essere così nichilista
e solo ora dichiari questa sua condizione esistenziale di perdurante
schizofrenia. Probabilmente è l'età avanzata che lo induce alla malinconia,
dato che non se ne scorgeva traccia fino a poco tempo fa. "Morirà di vecchiaia", era il suo refrain, e lo diceva a
tutte, anche alle pazienti in stadio avanzato, che, dati clinici alla mano, non
avevano alcuna speranza di sopravvivere.
Comunque sia, conosciamo tutti Veronesi: medico chirurgo oncologo di
fama internazionale, attuale Direttore scientifico dell'Istituto Europeo dei
Tumori, da lui fondato, già Direttore dell’Istituto Nazionale dei Tumori di
Milano, tra i fondatori dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro
(AIRC), nonché uomo politico, già ministro della sanità, assai apprezzato. Il
suo curriculum, la carriera e la vita, ne fanno una personalità di altissimo
livello le cui "parole sono come
pietre", per citare Carlo Levi, e quindi andrebbero meditate. Come mai
solo ora si accorge di quanto piena di persone e di dolore sia la sua fossa
comune? Non dovevano morire di vecchiaia? E perché quale "uomo della
speranza", come si autodefinisce, privarle pure del conforto del loro Dio?
La recente vicenda drammatica di Charlie Hebdo deve servire ancor più di
prima ad aprire una profonda riflessione sul tema di Dio. Sono stato tra i
pochi che non si sono associati all'hashtag #jesuisCharlieHebdo, non certo per difetto di solidarietà, ma per
altri motivi che ho cercato di spiegare e che, in estrema sintesi, riguardano
la figura di Dio che va rispettata e maneggiata con estrema cura e cautela. Non
mi riferisco, naturalmente, all' "Allahu Akbar" urlato dal
terrorista islamico mentre esplode e fa esplodere, né al "Gott mit uns” (Dio è
con noi) che campeggiava sulla fibbia dei cinturoni delle Schutz Staffeln di
Adolf Hitler, nè al "God bless
America" con cui concludeva i suoi discorsi Harry Truman prima e
dopo l’apocalisse atomica di Hiroshima e Nagasaki. Mi
riferisco al Dio vero, quello degli umili, delle periferie del mondo, quello che
rappresenta, per il credente, l'Alfa e
l'Omega- il Primo e l'Ultimo- il Principio e la Fine, mentre, per il non
credente, è quell'Entità riconducibile all'essenza stessa
dell'uomo, che sente l'esigenza di credere in qualcosa non potendo accettare
che la vita non abbia un senso; per dirla con Karl Marx: "il sospiro o
singhiozzo della creatura oppressa, l'anima di un mondo senza cuore",. Se
questo concetto di Dio vale come teoria generale dell'essenza umana, per tutte
le religioni e per chi non ha religioni, a maggior ragione deve valere per quel
medico, che constatato il suo fallimento come uomo di scienza, non può negare a
chi soffre e si è a lui affidato il conforto estremo del suo Dio, fosse anche un
surrogato, allo stesso modo con il quale non gli nega la morfina nel dolore
terminale, o il Temgesic, surrogato di sintesi della prima.
Mentre secondo Veronesi, “nessun Dio può riscattare
l'uomo dalla sua sofferenza...Come puoi credere nella Provvidenza o nell'amore
divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno
dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del
mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi
genitori...che perdono un figlio malato di tumore?”. Naturalmente Veronesi
é libero di esprimere le sue convinzioni, che però neanche esse sono la verità
rivelata. Mio padre e mia madre trovarono nel conforto della fede il lenimento
al dolore per la perdita lacerante del loro Enrico, morto di leucemia a soli
otto anni. Inoltre trovo che questo agnosticismo, insistentemente esibito in
tutti i media come un trofeo, proprio in occasione della presentazione o
vernissage, come usa dire oggi, della sua ultima fatica editoriale, sia
sospetto e comunque apra uno squarcio profondo nell’anima di chi, ammalato di
cancro o comunque coinvolto per amore, trova nella fede una luce di speranza o
ancora peggio di chi, brancolando smarrito ed impaurito dentro il crepuscolo
doloroso e solitario [nessuno è più solo di chi si approssima a morire] della
sua esistenza, crede infine o si illude di trovarvi una qualche traccia di
luce.
Non ce l'ho naturalmente con il Veronesi
che non crede in Dio, perché la fede è un prezioso dono, e sarebbe ancora più ipocrita far finta
di possederlo. Ce l'ho con il Veronesi che porta, come prove della non
esistenza di Dio, un fatto crudele ma naturale come la malattia oncologica, in
parte provocata, come è oggi ampiamente dimostrato, dalla condotta sconsiderata
dell'uomo, o un fatto efferato e criminale come lo sterminio dell'uomo
sull'uomo, questo si imputabile, interamente, all'empietà dell’ uomo. Se
é vero come é vero che non c'è nessuna evidenza scientifica dell'esistenza di
Dio, é altrettanto vero che nessuna prova scientifica può essere invocata a
sostegno della sua negazione, tantomeno quelle soggettive emozionali avanzate
dal professor Veronesi. Affermarla su queste basi é un atto di pura
arroganza, a meno che non si voglia pensare a Dio come a Spider Man o altro
superuomo dei fumetti della Marvel che accorre in picchiata ad ogni nostro
bisogno e con triplo salto mortale capriato con avvitamento ci salva
dall’imminente pericolo.
Mi sono ritrovato alcuni anni fa in una corsia del reparto di oncologia medica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di
Milano; era l’antivigilia di Pasqua, la giornata volgeva al termine ed era
rimasto solo il personale sanitario di turno, appartato nelle proprie stanze; nel reparto semi vuoto, quasi desolato, il
senso d’attesa per la festa imminente, ed a noi in quel frangente negata, mi rendeva
ancora più gravosa, claustrofobica, quella permanenza, tuttavia non riuscivo ad
andarmene benché fosse scaduto ampiamente l’orario delle visite e fossi già
stato richiamato; l’idea di lasciar sola la persona a me cara mi inchiodava là
nonostante l’angoscia crescente, finché ad un tratto vidi i suoi occhi illuminarsi:
sullo schermo del piccolo televisore nero appeso alla parete disadorna era
comparso il viso dolcissimo e rassicurante di Giovanni Paolo II che fortemente
sofferente si apprestava a celebrare la Via Crucis ed aveva già rivolto un
saluto a tutti gli ammalati; ho capito subito che non era più sola e così mi
sono accomiatato del tutto rasserenato. Uscendo salutai la signora della stanza
attigua che avevo avuto modo di conoscere; era anch’essa sintonizzata sulla Via
Crucis e serrava un piccolo rosario di legno tra le sue dita quasi cianotiche.
Qualche anno dopo, su desktop del portatile di mia sorella Maria Rita,
trovai un foglio word su cui riportava, tra altre notazioni personali, le
parole di "Orme sulla sabbia":
"...Così sono andata avanti, finché
tutti i miei giorni si esaurirono. Allora mi fermai guardando indietro, notando
che in certi punti c'era solo un'orma... Questi posti coincidevano con i giorni
più difficili della mia vita; i giorni di maggior angustia, di maggiore paura e
di maggior dolore. Ho domandato, allora : "Signore, Tu avevi detto che
saresti stato con me in tutti i giorni della mia vita, ed io ho accettato di
vivere con te, perché mi hai lasciata sola proprio nei momenti più
difficili?". Ed il Signore rispose: "Figlia mia, Io ti amo e
ti dissi che sarei stato con te e che non ti avrei lasciato sola neppure per un
attimo: i giorni in cui tu hai visto solo un'orma sulla sabbia, sono stati i
giorni in cui ti ho portata in braccio".
Esplorando la cronologia vidi che quello era il suo ultimo accesso, prima
di aggravarsi ed entrare in coma. Sono sicuro che non se ne sia andata
disperata, e lo sono anche perché, poco tempo prima, in pieno benessere, aveva
a me espresso con grande serenità, come se stesse parlando di una gita fuori
porta, il desiderio di una tomba esposta alla luce. Era la stessa LUCE che si portava dentro e che nessun medico, per
quanto luminare, potrà mai spegnere.
A questo punto, cosa importa se Dio esiste o
no? Quello che conta, e che deve essere
particolarmente evidente a chi fa questo mestiere, è che la sfera spirituale è
un momento inalienabile dell’assistenza globale al paziente oncologico perché
Dio, quale che sia la sua definizione, è oltremodo presente nella vita residua
di questi malati e in quelle dei loro familiari, e da loro consolazione. Quella
che noi medici grandi o piccoli che siamo, con i nostri farmaci più o meno
miracolosi, con le nostre grandi o piccole certezze, con la nostra grande o piccola supponenza non
potremmo mai offrire ed a maggior ragione negare.
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