COM’ERA VERDE
LA MIA VALLE
- Achille
Baratta –
Nel periodo estivo la
mia famiglia si spostava a Pirrione,
un casolato nel verde il cui magazzino delle nocciole aveva prima ospitato il baco da seta con le stalle
sottostanti e l’immancabile trappeto.
Per raggiungere la nostra casa di campagna occorreva
percorre un sentiero che si dipartiva dal ponte fauci attraverso la proprietà Scaglione fino alle parte
bassa della nostra proprietà denominata “u
zotto”.
Il viottolo aveva
“u malupassu”, che costituiva in un restringimento della montagna che poi
calava a picco sul torrente Rudaffi e li specialmente di notte si rischiava la
vita.
Dopo tutti noccioleti di un colore verde intenso che ti
abbagliava e ti costringeva a pensare che tu viaggiatore dell’ignoto ti fossi
immerso nell’unico luogo possibile della tua esistenza e che su ad esso non ci
fosse alternativa. Queste sensazioni di contrizioni ambientali si allentava
quando ci si riposava alla fontanella sita nella parte alta du zotto e poi
svaniva alla vista del caseggiato contraddistinto da un pergolato di uva
fragola.
La vallata
continuava contraddistinguendola con la denominazione “ a vaddi” e poi ancora più a monte “a costi u ladru”, di fronte “a
vigna” sotto Rudaffi dove il terreno era
argilloso, diverso da quello di Pirrione che era sabbioso.
D’estate la nostra famiglia si ampliava di un altro
membro, lo zio Bastianino che era comproprietario della casa e di alcuni
terreni circostanti di proprietà dello zio Guido. Erano con mio padre,
Vincenzino, tre fratelli tutti ingegneri che avevano intermezzato la loro vita
professionale da ufficiali in due guerre mondiali più un periodo di prigionia in Africa.
Andare a
Pirrione per mio padre Vincenzino
costituiva passare un periodo di riposo solo mentale perché occorreva inseguire
il progresso e la civiltà e ogni anno c’era un progetto di ammodernamento:
l’acquedotto, e servizi igienici, l’allacciamento alla rete elettrica a “Pracudda”,
il terrazzo con sottostante portico, la costruzione e la manutenzione delle
saie e la costruzione delle briglie nei due torrenti e poi l’orto e le piante
che si facevano venire da Pistoia o da Scaravatti e poi i pomodori a cuore, le
melanzane e i peperoni che venivano sempre brucenti.
Ma l’orgoglio
personale di mio padre era un cedro del libano che troneggiava a destra della vallata, quasi fosse li
per spiare le ombre e luci di un’attività che oscillava tra la professione e
quella di conduzione di un azienda agricola.
Un’altra presenza era costante, maestro Giovanni, il falegname di casa che realizzava con il nostro
legno di castagni i mobili o le porte che mio padre disegnava nei minimi
particolari, dalla serratura agli incastri spesso a scale reali. Poi c’erano
gli orologi solari un altro aspetto dell’attività di mio padre che progettava a
realizzare personalmente e poi la notte la lezione sulle stelle che apparivano
nitide tra “Minucera” e “Monte Castello”.
A dirla in
vero le luci di Ucria e i suoi rumori erano l’unico legame con gli altri, che
poi erano i nostri amati concittadini a noi legati da un rapporto di rispetto
reciproco.
Poi c’era “U
pridicaturi”, il nostro uomo di
fiducia, che poi, diventato vecchio, era diventato quasi mio nonno, lui
raccontava le vecchie storie di paese e soprattutto accendeva il fuoco sotto u perterra e nelle giornate di pioggia
si guardava la pioggia come un miracolo divino, mettendo le bacchette sui rivoli
e arrostendo castagne, mele e patate un vero paradiso terrestre indescrivibile
e comunicabile solo a pochi che hanno goduto di questi piaceri.
Poi le bambole
di fella e fillizzi costituivano il
piacere di trasformare il niente caduco in un oggetto singolare e la gioia di
noi bambini.
Poi le piante
di ficodindia, le ginestre e il pino, nello spazio antistante la chiesetta che
sembrava non crescer mai, poi a gebbia che noi ragazzi trasformavamo in piscina
con grande ira dei grandi, che probabilmente ci invidiavano.
La Rocca di
Scaglione era lo zenit di un mondo
da fiaba, da li proveniva l’acqua che
arrivava a casa e li si andava a fare la merenda con le provole e il pane fatto
in casa.
Poi le api e
il miele, mio padre era un apicoltore e
faceva costruire da don Giovannino anche gli alveari moderni e ancora a sarsa e l’astrattu steso al sole con
maestria e controllato almeno ogni ora, doveva venire quel rosso luccicante che
era l’antidoto all’inverno.
Poi i biscotti,
a marmellata e u burru e u pani pi i picciriddi e quello di crusca per i cani.
Dimenticavo di dire che noi avevamo una proprietà a Rocca
di Caprileone da dove mio padre faceva venire una mucca per avere il latte
fresco che veniva munta regolarmente ogni mattina.
Un anno c’era pure
un vitellino con cui io giocavo fino
a quando cresciuto e infastidito dal mio accarezzamento tentò di incornarmi con
mia grande meraviglia, era cresciuto e non voleva rotte le scatole, sono sicuro
che aveva ragione. Poi la scuola e la città e tutto si dissolveva.
Tutto questo all’ombra di quella grande clessidra che si
chiamava tempo, si dice che il tempo e la morte non aspetta nessuno ma la valle
resta sempre verde a prescindere da chi la possiede perché e come il primo
grande amore non si scorda mai perché anche se non lo vuoi fa parte di te e non
morirà se tu non lo vorrai e io non lo voglio e scrivo per tramandare.
Senza memoria
non c’è storia, ed è questo il
vero motivo per cui Maria Scalisi di adopera a riportare scrivendo un tempo
passato come chiave di lettura del futuro. Grazie.
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