Alla ricerca di luoghi perduti
- Mario Nici -
C'era una volta... “a taverna”, sembrerebbe l'incipit di una favola dei Fratelli Grimm; quello che oggi potrebbe apparire come il racconto immaginario di un tempo andato, un passato remoto e fantastico è invece il ricordo nitido reale di un luogo che ha segnato per tanti aspetti la storia del nostro piccolo borgo.
Sono nato ad Ucria verso la fine degli anni '50. Come tanti nati nell’entroterra ed in quel tempo ( era l'epoca dei convitti e dei collegi), ho vissuto due gioventù parallele, una studentesca nel capoluogo, l’altra nel paesello, qui riportato tutti i fine settimana dalle corriere sbuffanti delle autolinee AST e Ballato; la prima esistenza era preponderante sulla seconda. Ciò nonostante, ho avuto il tempo di vivere o quantomeno di imprimermi addosso, una “ucriesità” che mi ha plasmato carattere, gusto, giudizi.
Allora, frequentavamo un locale, divenuto nel tempo, storico punto di riferimento ucriese, che si chiamava “a taverna du Missinisi” o più semplicemente, unni u’ Missinisi. Stava sull'angolo sud-est del cuneo formato da via Rosario Baratta e via Padre Bernardino, con base Piazza Castello. Mi ci aveva portato, insieme ai miei inseparabili "fratelli" Maurizio e Rino, Turi Sciabulazza ed altri amici più grandi, in un sorta di condiviso e sottinteso amarcord; rivedo ancora oggi, con affetto, lo sguardo benevolmente ansioso dei fratelli "Simuni", Vincenzo e Nino Mancuso, all'atto del primo bicchiere, che era opportuno svuotare in un unico sorso; anche loro qualche tempo prima vi avevano celebrato il loro rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Unni u Missinisi, avvolto nel fumo blu delle Esportazioni senza filtro e delle Nazionali semplici, ho passato diverse ore dei miei week-end giovanili, quelli più belli, a tratti tumultuosi, quelli della formazione. E tra quei tavoli di legno grezzo come un’ anatra selvatica di Konrad Lorenz, ho ricevuto un irrevocabile imprinting.
Sì perché dal Missinisi abbiamo conversato, spettegolato, riso e deriso, ma anche progettato, ascoltato e discusso all’infinito di cose grandi, da come crescere per trasformarsi magari in “uomini grossi come alberi” (cit.: Paolo Conte,'82, “Diavolo Rosso” - Appunti di Viaggio-), a come formare liste per le prossime amministrative, o fare e disfare giunte, sia pure nella intenzioni e con alterne fortune, ma abbiamo soprattutto bevuto, bevuto i vini rossi che arrivavano dalla Solicchiata alle falde dell’Etna o dai territori assolati del pachinese, prima che il nerello mascalese ed il nero d’Avola, da sconosciuti umili vini rossi e mossi delle tavole contadine ed operaie, da tagliare con la gassosa Ciappazzi, divenissero cugini poveri bohémien di più nobili vitigni ed andassero loro stessi a tagliare per strutturare mostri sacri come il Brunello di Montalcino e il divin Barolo.
Bere quel vino, farlo da giovani “uomini”, nella Ucria in bianco e nero di quegli anni e in un luogo come l’osteria del Messinese, credo abbia inciso sui nostri caratteri così profondamente da influenzare e modulare le scelte successive, tanto nelle relazioni umane quanto più in generale nel modo di intendere la vita. Ed è avvenuto in modo così paradigmatico che io, antropologo dilettante dei fini settimana, non ho potuto esimermi dall’elaborare questa "purissima" teoria sul fondamentale ruolo formativo che questi luoghi perduti, ed in particolare i loro proprietari ( il mitico Missinisi: uomo apparentemente burbero ma di immensa umanità) ricoprivano nelle prime delicatissime fasi di apprendimento ed iniziazione di giovani, innocenti, bevitori di gassosa e aranciata Cucinotta (quale io ero fino a quel fatidico giorno).
Non v’è dubbio alcuno, infatti, che ben più di catechismi, libri di educazione civica, scuole e convitti, la prima fondamentale lezione di socializzazione vera, sul campo e non solo nella sfera teorica, ci sia stata impartita in quel luogo fisico venerabile, da maestri "illuminati". Li ti capitava di incrociare tutta l'intellighentzia locale: Iachino Allia, "u Maestru", di scuola e di vita; Gandolfo Di Maio,"u Dutturi" per antonomasia; u Camperi Bavó, memoria storica ucriese, enigmatico e magnetico come La Gioconda; Peppino Panzalorto, splendido visionario, irrefrenabile, il più grande e purtroppo sottovalutato pittore ucriese, e non solo, del XX secolo; Vincenzino Martelli, politologo raffinato alla grande scuola di Nino Gullotti; Vincenzino Scalisi, "u Mulinaru", persona colta a dispetto delle accademie mai frequentate, dall'umorismo bruciante, umanamente contagioso; Nunziato "Branca", l'archetipo universale della sapienza contadina e della sua voglia di riscatto, e persino il Sen. Luigi Genovese, legato alle sue radici come l'edera al suo muro. Ed accanto a loro tanti nomi, tante voci, tanti volti, molti dei quali, ormai, purtroppo sbiaditi anche nel ricordo. Per noi giovani iniziati era sempre un' emozione grande, quasi come quella raccontata da Franco Battiato quando "un giorno sulla prospettiva Nevski per caso vi incontrai Igor Stravinsky". Una palestra di vita. Lì chiusi, tra le pareti liquide di bicchieri, quartini e bottiglie disordinate, la nostra intelligenza sociale si è costruita, il nostro istinto relazionale affinato, i filtri attivati, lì abbiamo appreso il linguaggio dei gesti e della mimica facciale con le sue infinite sfumature predittive o rivelatrici, in una sola parola l'arte di conoscere persone e cose; abbiamo anche appreso, non senza cadute e ricadute, che bere bene è meglio che bere tanto e che un buon bicchiere di vino aiuta di più di un fundador o di una vodka al melone.
Il proprietario, don Peppino, era il più grande di tutti. Aveva un compito fondamentale, socialmente rilevante, infinitamente utile quanto incautamente (da qualcuno) sottovalutato. Era il Preside della Scuola. Il regista del film, anzi dei films (la sua taverna era un multisala ante-litteram). Ed era un grande regista, perché le recite non erano mai a soggetto, non vi era copione, né comparse o primi attori, né trucco, né inganno. Tutto all’impronta . Mi piace pensare che se Federico Fellini, si fosse trovato per avventura da quelle parti, altro non avrebbe desiderato fare che sedere ed imparare. Don Peppino era un vulcano in perenne eruzione: gestiva, proponeva, moderava, accendeva e poi spegneva, dispensava, sanzionava. Il tutto con bonaria furbizia e sapienza antica. Aveva un suo codice non scritto, ma ben definito e quasi scolpito in trasparenza nell’aria densa e vaporosa del locale. Dopo un po’, se non eri tonto, lo imparavi e ti regolavi di conseguenza: 1) avventori occasionali, qualora sgradevoli, solo vino dalla botte che cominciava a "spuntiari"; 2) avventori abituali, vino, gassosa e qualche uovo sodo; 3) avventori graditi, vino, panini caldi di don Turiddu ‘u furnaru e mortadella profumata (dalla bottega comunicante); 4) avventori particolarmente graditi, vino da' "sacristia", brucculeddi ‘ffucati cu sutt’e supra e pani i casa, dopo trasferimento, al momento opportuno, nel sancta sanctorum: un piccolo locale attiguo, provvisto di cucinino a due fuochi regolarmente inscritto tra due trecce di aglio e peperoncino ai lati, relativamente angusto e con arredamento spartano, ma per tutti noi prezioso come un tabernacolo. Il codice era democratico ed apolitico e veniva applicato alla lettera e con rigore, non avendo sorprendentemente Don Peppino alcun scopo di lucro. Né poteva essere altrimenti, considerata la qualità della persona.
In questi luoghi, purtroppo perduti, e ce n'erano parecchi - unn'a Durnisi, unni Turi Capuni, unni Paladina, unni Minìu - ci siamo formati, siamo umanamente cresciuti, abbiamo acquisito piccole, magari infinitesimali, sicuramente frammentarie, ma comunque forti e persistenti consapevolezze di noi, degli altri e del mondo.
Oggi di questi luoghi di convivio, dall’aura vagamente romantica, resta niente o quasi niente, purtroppo; trovare una vera taverna/osteria dove potersi fermare a fare due chiacchiere conviviali tra amici, sentendosi a casa, davanti ad un bicchiere di vino è ormai un racconto di favole. Sono nati al loro posto i pub, i win bar, ma le loro stesse denominazioni 2.0 escludono in nuce la magia di quella tradizione.
E mi viene in mente, non senza malinconia, il film "La Cena" di Ettore Scola, il maestro della caratterizzazione "a tipage", un sorprendente affresco di umanità multicolore ove è tangibile e struggente il senso di alienazione dei vari personaggi. Ambientato in una osteria romana, nel film si vede gente diversa, ognuna con la propria storia, le proprie angosce, ognuna terribilmente derelitta, dove, tuttavia, l’ambiente conciliante e familiare permette loro di godere alla fine della compagnia degli astanti. Il più sereno è paradossalmente il più solo, un anziano Vittorio Gassman, cliente fisso del locale, che dal suo tavolo solitario, sera dopo sera sconfigge la solitudine.
Avevo in passato postato questo mio ricordo su un sito FB e mi ero visto accusare di Elogio dell'Alcolismo, senza la fortuna però capitata ad un altro signore molto più illustre di me, un certo Erasmo da Rotterdam, famoso per un altro Elogio, quello della Follia; probabilmente quel giudizio negativo era solo ironico; comunque sia, mi sento di riproporlo convinto come sono che non c’era solo vino nell’osteria di una volta. C’era molto di più.
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