LA SCALINATA DI VIA POZZO
- Angela Niosi -
Era la “mia” scalinata.
Sessanta gradini suddivisi asimmetricamente in cinque rampe. Tre di esse
visibili dal basso, bloccate dal muro di protezione della mia casa, le ultime
due posizionate a formare un angolo retto.
A custodirla, due muri a secco che portavano, chi la guardava, ad
immaginare una piccola galleria a cielo aperto.
Rappresentava una valida scorciatoia per chi doveva raggiungere la parte
alta del paese.
Spesso, mi sorprendevo a guardare i passanti che vi si arrampicavano, le
loro camminate così diverse.
I giovani la percorrevano di corsa e non avvertivi fatica nei loro
fiati,i vecchi procedevano con lentezza, appoggiando una mano sulla gamba,
fermandosi a sorreggersi la schiena , lo sguardo in alto a calcolare il resto
della salita. Intanto, strappavano qualche filo d’erba che sporgeva,
incautamente, dal muro.
Quando arrivavano davanti a casa mia, ne approfittavano per riposarsi,
sedendo sul parapetto a recuperare un po’ di forze rosicchiate dalla scalata e
raccontavano come fino a poco tempo prima non se li vedevano neanche fare quei
maledettissimi “scaluni”…
La discesa era tutta un’altra storia.
Il passo risultava più spedito, i bambini saltavano i gradini due, tre
alla volta. Anch’io e mi sembrava di volare, il cuore che batteva forte
al pensiero di sbagliare l’atterraggio e di finire per terra. Spesso succedeva.
Viveva, la scalinata, viveva come un colosso di pietra dal cuore vero e
il suo cuore nutriva ciuffetti d’erba, ortiche e timidi fiorellini gialli, i
fiori delle rane, dicevano gli anziani, che, periodicamente gli addetti del
Comune strappavano senza pietà. Ogni tanto la spazzavano ma, spesso, ero io a
farlo perché la consideravo come il prolungamento della mia casa e mi piaceva
saperla pulita e felice.
Nei giorni di pioggia, guardavo l’acqua scorrere impetuosa, formando
piccole cascate ad ogni gradino e trascinando nella sua corsa residui di
spazzatura minuta abbandonata da passanti senza cura.
La scalinata era uno dei luoghi privilegiati dei nostri giochi
infantili, testimone silenziosa di pazze corse e di cadute rovinose che
lasciavano sulla pietra piccoli pezzi della nostra pelle, nascoste
prudentemente alla mamma, per non prendere il resto.
Ma la vera magia della scalinata si compiva nelle sere d’estate quando
ci era concesso uscire a giocare.
Io respiravo la scura aria tiepida della sera e mi fermavo, per un
attimo, a sentirne i rumori.
Riuscivo a distinguere il verso cupo dei colombi, quello stridulo dei
grilli, il gracidare di grosse rane alla ricerca di frescura, mentre attorno al
lampione si affollavano farfalle notturne e insetti, ignari prede di
“zazzamille” in agguato in coni d’ombra.
Erano i muri della scalinata, con le loro misteriose fessure, ad
offrirci lo spettacolo più suggestivo:la ricerca delle lucciole, che chiamavano
lanterne del pecoraro.
Si andava a cercarle seguendo tremule lucine intermittenti. I più arditi
le catturavano e le trasferivano in piccole scatole attorno alle quali si
spintonavano le nostre teste per poter guardare meglio.
Sorpresa, meraviglia, gioia si liberavano dalla nostra bocca, qualche
volta ne ho trattenuta una nell’incavo della mia mano, l’altra mano come un
coperchio.
No ci stancavamo mai di guardarle ed ammirarle, eleganti fatine della
notte, ma sapevamo che dovevamo liberarle ed eccole di nuovo puntini luminosi
nell’aria buia.
Le seguivamo con lo sguardo e intanto altri giochi attiravano la nostra
attenzione, altri piccoli misteri nascosti nella scalinata.
E poi…l’emozione del giorno delle mie nozze quando, aggrappata al
braccio di mio padre, lo strascico del velo da sposa l’ha accarezzata tutta,in
una struggente malinconia per il distacco, come un saluto lungo sessanta
gradini.
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