lunedì 22 giugno 2015

ANGOLO DELLA GASTRONOMIA:SUINO NERO DEI NEBRODI - Rosalba Paladina -


SUINO NERO DEI NEBRODI
- Rosalba Paladina -

Il Suino nero dei Nebrodi, anche chiamato Suino nero Siciliano, o Suino nero dell'Etna, è una razza autoctona italiana di maiale presente nei territori di San Fratello e Cesarò, in provincia di Messina, ma che si è diffusa sia sui monti Nebrodi che sulle Madonie ad altitudine massima di 1.800 m sul livello del mare.
L'allevamento di questo suino ha origini antiche : resti fossili e documenti scritti testimoniano la presenza di questi animali fin dal periodo della dominazione Greca. dai primi anni del '900  il Suino nero dei Nebrodi era di soliti allevato in piccoli gruppi di 10-15 animali. Già allora si era diffuso l'incrocio con altre razze migliorate. Il suino nero è attualmente una razza ufficialmente riconosciuta.

Razza precoce, rustica e longeva, è caratterizzata da una buona fertilità è vivinalità, presenta una buona resistenza alle avversità climatiche. gli esemplari crescono lentamente e producono carne di riconosciuta qualità. Si presenta di taglia medio-piccola rispetto ad altre razze italiane, con altezza al garrese del verro adulto di 60-65 cm in media e si caratterizza per la pellicia di colore nero uniforme. Anche la cute stessa, spessa fino a 2 cm negli adulti, è di colore nero ardesia, con i lombi che raggiungono la lunghezza di 10 cm circa,  assumendo la forma di una criniera che viene sollevata in caso di agitazione. Essendo un animale molto rustico, dotato di muso allungato e arto lunghi che lo rendono un buon pascolatore e camminatore viene allevato allo stato brado o semi-brado e lasciato libero di vagare per i boschi.






ANGOLO DELLA GASTRONOMIA: IL CANNOLO SICILIANO - Rosalba Paladina -

IL CANNOLO SICILIANO
- Rosalba Paladina -

I Cannoli sono una della specialità più conosciute della pasticceria siciliana,come tale è stata ufficialmente riconosciuta e inserita nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T). In origine venivano preparati in occasione del Carnevale;col passare del tempo a preparazione  ha perso il suo carattere di occasionalità ed ha conosciuto una notevolissima diffusione sul territorio nazionale.
Il riferimento del nome è legato alle canne di fiume cui venivano arrotolato fino a pochi decenni fa la cialda durante la preparazione.
Secondo una diffusione tradizione esso deve il proprio nome ad uno scherzo carnevalesco che consisteva nel far fuoriuscire dal cannolo la crema di ricotta al posto dell'acqua.Il dolce sebbene sia nato a Caltanisetta deve comunque gran parte della sua notorietà e diffusione ai Pasticceri di Palermo.
Si narra che furono per prime le donne dell' harem del castello delle donne del signore dell'allora Caltanisetta le inventrici della ricetta.Queste donne pare si fossero ispirate ad un dolce di origine Romana, di cui già parlava Cicerone ,che lo descriveva come un dolcissimo cibo a base di latte.
Si compone di una cialda di pasta fritta (detta scorza e lunga da 15 a 20 cm con diametro di 4-5 cm) ed un ripieno a base di ricotta di Pecora. Per la scorza si formano dei piccoli dischi di pasta che vengono arrotolati su piccoli tubi di metallo e poi fritti tradizionalmente nello strutto,oggi anche in grassi meno costosi.
Secondo ricercatori la farina in origine usata era la farina  di grano tenero per dolci maiorca ampiamente diffusa in Sicilia fino agli anni '50. Prima delle moderne leggi in materie di Igiene, la pasta veniva arrotolata su piccoli cilindri ottenuti ritagliando normali canne da fiume, che diedero cosi il nome al dolce.
Il ripieno tradizionale consiste di Ricotta di pecora setacciata e zuccherata. Al ripieno vengono poi aggiunti canditi o gocce di cioccolato,ed infine il dolce viene spolverato con zucchero a velo.

Nel ragusano , per tradizione, è usata la ricotta vaccina, dal sapore più delicato rispetto alla classica ricotta di pecora. Vanno riempiti al momento di mangiarlo; questo perchè con il passare del tempo, l'umidità della ricotta viene assorbita dalla cialda facendole perdere la sua croccantezza. Per evitare ciò, alcuni pasticceri rivestono la superficie interna del cannolo con cioccolato fuso.





LA SCALINATA DI VIA POZZO - Angela Niosi -

LA SCALINATA DI VIA POZZO
- Angela Niosi -

Era la “mia” scalinata.
Sessanta gradini suddivisi asimmetricamente in cinque rampe. Tre di esse visibili dal basso, bloccate dal muro di protezione della mia casa, le ultime due posizionate a formare un angolo retto.
A custodirla, due muri a secco che portavano, chi la guardava, ad immaginare una piccola galleria a cielo aperto.
Rappresentava una valida scorciatoia per chi doveva raggiungere la parte alta del paese.
Spesso, mi sorprendevo a guardare i passanti che vi si arrampicavano, le loro camminate così diverse.
I giovani la percorrevano di corsa e non avvertivi fatica nei loro fiati,i vecchi procedevano con lentezza, appoggiando una mano sulla gamba, fermandosi a sorreggersi la schiena , lo sguardo in alto a calcolare il resto della salita. Intanto, strappavano qualche filo d’erba che sporgeva, incautamente, dal muro.
Quando arrivavano davanti a casa mia, ne approfittavano per riposarsi, sedendo sul parapetto a recuperare un po’ di forze rosicchiate dalla scalata e raccontavano come fino a poco tempo prima non se li vedevano neanche fare quei maledettissimi “scaluni”…
La discesa era tutta un’altra storia.
Il passo risultava più spedito, i bambini saltavano i gradini due, tre alla volta. Anch’io e mi sembrava di volare, il cuore  che batteva forte al pensiero di sbagliare l’atterraggio e di finire per terra. Spesso succedeva.
Viveva, la scalinata, viveva come un colosso di pietra dal cuore vero e il suo cuore nutriva ciuffetti d’erba, ortiche e timidi fiorellini gialli, i fiori delle rane, dicevano gli anziani, che, periodicamente gli addetti del Comune strappavano senza pietà. Ogni tanto la spazzavano ma, spesso, ero io a farlo perché la consideravo come il prolungamento della mia casa e mi piaceva saperla pulita e felice.
Nei giorni di pioggia, guardavo l’acqua scorrere impetuosa, formando piccole cascate ad ogni gradino e trascinando nella sua corsa residui di spazzatura minuta abbandonata da passanti senza cura.
La scalinata era uno dei luoghi privilegiati dei nostri giochi infantili, testimone silenziosa di pazze corse e di cadute rovinose che lasciavano sulla pietra piccoli pezzi della nostra pelle, nascoste prudentemente alla mamma, per non prendere il resto.
Ma la vera magia della scalinata si compiva nelle sere d’estate quando ci era concesso uscire a giocare.
Io respiravo la scura aria tiepida della sera e mi fermavo, per un attimo, a sentirne i rumori.
Riuscivo a distinguere il verso cupo dei colombi, quello stridulo dei grilli, il gracidare di grosse rane alla ricerca di frescura, mentre attorno al lampione si affollavano farfalle notturne e insetti, ignari prede di “zazzamille” in agguato in coni d’ombra.
Erano i muri della scalinata, con le loro misteriose fessure, ad offrirci lo spettacolo più suggestivo:la ricerca delle lucciole, che chiamavano lanterne del pecoraro.
Si andava a cercarle seguendo tremule lucine intermittenti. I più arditi le catturavano e le trasferivano in piccole scatole attorno alle quali si spintonavano le nostre teste per poter guardare meglio.
Sorpresa, meraviglia, gioia si liberavano dalla nostra bocca, qualche volta ne ho trattenuta una nell’incavo della mia mano, l’altra mano come un coperchio.
No ci stancavamo mai di guardarle ed ammirarle, eleganti fatine della notte, ma sapevamo che dovevamo liberarle ed eccole di nuovo puntini luminosi nell’aria buia.
Le seguivamo con lo sguardo e intanto altri giochi attiravano la nostra attenzione, altri piccoli misteri nascosti nella scalinata.
E poi…l’emozione del giorno delle mie nozze quando, aggrappata al braccio di mio padre, lo strascico del velo da sposa l’ha accarezzata tutta,in una struggente malinconia per il distacco, come un saluto lungo sessanta gradini.




LA SICILIA E L’AMERICA - Achille Baratta -

LA SICILIA E L’AMERICA
-Achille Baratta -


Io e la mia famiglia con tutta la nostra Ucria abbiamo pianto per la partenza dei nostri fratelli, dei nostri amici e in genere dei nostri compaesani per le americhe.
Loro partivano timorosi ma determinati, cercavano quella cosa misteriosa e magica che da noi non c’era più: LA SPERANZA.
Noi restavamo attoniti, con le lacrime agli occhi, perché non sapevamo immaginare e non sapevamo pensare oltre la valle.
Quella valle verde di noccioleti, che ci dava da vivere era diventata una prigione, e i coraggiosi partivano con l’impegno economico di tutti quelli che credevano in quel nuovo mondo che rappresentava tutto e niente. Era il futuro.
Quelle lacrime e quel dolore collettivo si scriveva attraverso le pagine di ben Lener: il mondo a venire, ma ancora meglio sull’ultimo libro del Sellerio editore: Palermo: Storia vera e terribile tra Sicilia e America che porta un numero surreale 1002. Enrico Daglio, l’autore, che vive tra Torino e San Francisco racconta di una impiccagione collettiva e di fatti avvenuti nella sconosciutissima Tallulah, trecento chilometri a nord di New Orleans dove, nel 1899, in una calda notte di luglio venivano impiccati i Defatta, cittadini della nostra Cefalù che in quei luoghi erano immigrati per diventare i dagos, questo era il termine dispregiativo per indicare i siciliani, considerati dei negri annacquati; niente di nuovo: ancora i nostri dovevano chiamarci terroni o Magia Savon, a quei tempi noi non esistevamo come cittadini ma solo plebe da utilizzare.
L’autore scrive: era una caldissima sera d’estate, il 20 luglio 1899. Ma le notizie vennero battute al telegrafo con molte ore di ritardo, solo quando il telegrafista fu sbendato e slegato. Dicevano che in località Tallulah, contea (o meglio: parrocchia, all’uso francese) di Madison, all’estremo nord-est dello stato della Lonisiana, una folla «ordinata e calma, ma molto determinata» aveva provveduto all’impiccagione – secondo la consuetudine del linciaggio – di cinque italiani ivi residenti.
I Defatta erano diventati commercianti di frutta e verdura, con ben due negozi a Tallulah a cui facevano capo anche carretti variopinti per la vendita ambulante, ma poi: “Succinte, ma comunque incredibili, le ragioni dell’impiccagione collettiva. Tutto era cominciato con una capra, di proprietà di uno dei Defatta, che era solita brucare erba nel prato dell’ufficiale sanitario del paese, il dottor J. Ford Hodge. Questi si era lamentato diverse volte, ma non avendo avuto soddisfazione, all’ultima intrusione aveva ucciso la capra con un colpo di pistola. Il gruppo dei siciliani aveva giurato vendetta e uno di loro aveva sparato al dottor Hodge, ferendolo seriamente. Da qui la reazione della cittadinanza, circa duecento persone che avevano iniziato una caccia all’uomo. Due di loro erano stati catturati in prossimità dell’aggressione al dottore; altri tre lontani dal fatto. I cinque, già malvisti in paese per il loro comportamento violento e aggressivo, erano stati giudicati colpevoli di complotto per uccidere il dottore e in procinto di instaurare un regime di terrore nel paese di Tallulah; e quindi impiccati”.
Ma ora rincontrare i nostri è una festa usciamo da quel letargo di dolore e ci riprendiamo ancora per mano e percorriamo un unico nuovo sentiero: quello della vita in tempo reale che ci permette di dialogare e ci permette di dialogare e perché no? Quello di amarci dei nostri fiori e dei nostri profumi, declinati con una nuova lingua, quella dell’uguaglianza e della solidarietà. Sarà un mondo utopico certamente, ma a noi che ci importa? Senza utopia e senza speranza non c’è vita e ne vogliamo vivere, per ballare ancora la tarantella a suon di fisarmonica, mandolino e marranzano. È questo un vero tema  portante di chi scrive nella convinzione che esiste un MONDO avvenire migliore.







C'ERA UNA VOLTA… MIO PADRE - Mario Nici -

C'ERA UNA VOLTA… MIO PADRE
- Mario Nici -





Nel parlare dei propri affetti il rischio che si corre è che il racconto diventi un lungo flashback più o meno articolato della vita della persona cara, privo di un punto di vista se non quello dell' agiografia pura e semplice. Cercherò di evitare questa trappola, ma non è detto che il tentativo vada a buon fine.
Difatti, quando si sfoglia il libro dei ricordi si strappa un sottile velo su tanti sentimenti apparentemente rimossi o comunque sopiti nella vita di tutti i giorni, relegati in un angolo da una realtà esigente in cui c’è sempre meno tempo per fermarsi a pensare. E’ in tale momento che le ragioni del cuore possono riaffiorare tutte in maniera prepotente oscurando o, quantomeno, rendendo indistinti gli elementi oggettivi del ricordo. Il voltarsi indietro deve allora solo servire a richiamare  con distacco e ringraziare un passato senza il quale non c’è futuro. Dire “c’era una volta” non significa solo iniziare a raccontare storie fantastiche o commemorative davanti al caminetto ai propri figli, ma anche trasmettere ai più giovani quello che è stato ieri. Un passato meritevole e non cancellabile anche se ormai, fatalmente, tinto di bianco e nero.

“Tuo padre era semplicemente un grande insegnante e uno straordinario uomo di fede" - mi disse Padre Antonino Gagliardi, suo grande amico, qualche anno dopo la sua morte, con un pizzico di commozione che traspariva dagli occhi inumiditi dal ricordo. Era stato male, e stava trascorrendo un periodo di riposo e convalescenza presso un Istituto Religioso di Tindari, ove ero andato a fargli visita . "Tutti lo conoscevano e non solo a Ucria. Era un nome che si presentava da solo e che apriva idealmente le porte di molti cuori che parevano chiuse. Il suo altruismo non aveva limiti, era un personaggio straordinario a 360 gradi e non lo dico tanto per fare un’affermazione scontata, da vecchio amico. Aveva determinazione e un  grande coraggio, di gran lunga superiore al mio, e ricordo che tutti lo rispettavamo per le sue doti anzitutto umane. Un aspetto particolare…, scolpiva la sua  fisionomia nella mente di chi gli stava davanti:  il suo interessarsi in maniera accorata alle difficoltà di tutti,  cosa che non consentiva a nessuno di dimenticarlo come persona”.
Che dire? Potrei chiudere pure qua.
Giuseppe Maria Nici era nato il 4 settembre 1919, in una povera casa di pendio, eretta su un terrapieno, al cui ballatoio si accede ancora oggi tramite una corta scalinata di blocchi di pietra, nel punto in cui la via Cairoli, scappando ripida dall'Acqua Perduta, tra le case, da un lato, e i muretti a secco che delimitano gli orti, dall'altro lato, rallenta, quasi titubante,  per ricevere l'ultima propaggine in basso della via Caffuti; poi riprende per disegnare ( a quei tempi)  una stretta ansa che va a ramificarsi a T nella via Vittorio Emanuele a destra e nella "vanedda" di Vasile a sinistra, e quindi, riacquistato slancio, continua in linea retta più o meno mossa la sua ardita corsa verso la Chiesa di Santa Croce.
Di umili origini contadine, quarto di sette figli, svolge qui fin da bambino e da adolescente nell’ambito della famiglia patriarcale di Basilio Nici, padre, il ruolo di vedetta, al pari di Giovanni, “la piccola vedetta lombarda” del libro Cuore di De Amicis, sia pure con esiti meno infausti: tutte le notti, nel caldo estivo o nei rigori del freddo invernale, deve alzarsi di buon ora, intorno alla mezzanotte, spostarsi dalla sua abitazione di via Cairoli fino a via Vittorio Emanuele in modo da inquadrare alla vista l’orologio del municipio di Piazza Castello, per poi allo scoccar dell’una tornare indietro di gran carriera, dare la sveglia a tutta la famiglia e raggiungere a piedi con essa  i lontani campi di lavoro ("i maisi") in contrada Zi Pala . 
Questa attività si interrompe nel 1940 con lo scoppio della II guerra mondiale. Il giovane Giuseppe Nici viene arruolato ed imbarcato sull’incrociatore da guerra Zara.  Alle 22:27 del 28 marzo 1941, nei pressi di capo Matapan ( Grecia), lo Zara e le altri navi della squadra italiana vengono improvvisamente illuminate dai riflettori del cacciatorpediniere HMS Greyhound, provvisto di radar a differenza della marina italiana, e subito dopo fatte oggetto del fuoco delle corazzate dell’ammiraglio britannico  Cunningham, tutte dotate di micidiali cannoni da 381 mm, che sparano da una distanza compresa tra i 3.500 ed i 2.600 m (praticamente un tiro al piccione a bruciapelo): in tre minuti, sullo Zara caddero quattro salve della ammiraglia di flotta Warspite, cinque salve della corazzata Valiant e quattro della corazzata Barham, mentre il Fiume venne centrato da due salve della Warspite ed una della Valiant;  le due navi vennero immediatamente ridotte a relitti in fiamme ed affondate, senza aver nemmeno tentato di reagire all'attacco, poi fu la volta dei cacciatorpedinieri di scorta. I soccorsi giungono sul posto solo la mattina del giorno successivo, trovando il mare arrossato dal sangue e dai giubbotti di salvataggio che tenevano a galla migliaia di marinai italiani ormai cadaveri. Tra questi corpi, in stato comatoso e di semiassideramento, vi era il marinaio di prima classe Giuseppe Nici, ripescato intorno alle ore 11.00 del 29 marzo. Dopo una settimana trascorsa tra la vita e la morte seguì una lunga prigionia di oltre 7 anni, prima in Sud-Africa poi in Inghilterra. Al ritorno il reduce Giuseppe, quasi trentenne, espresse la sua intenzione di studiare e conseguire almeno un diploma di scuola magistrale. Dedicarsi in qualche modo agli altri era il risultato di un ex-voto contratto idealmente quella notte con la Madonna del Rosario, tra i bagliori delle fiamme e l’odore acre di tritolo, nafta e carne bruciata, tenuto a mente negli anni successivi e poi trascritto di suo pugno sull’antepagina del volume “Morte per acqua a Capo Matapan”, edito da Lerici nel 1965 . Data la perplessità e poi ostilità, non certamente umana ma preconcetta sì, dei suoi familiari (le braccia strappate alla vanga), mise in vendita il suo pezzo di terra, accettò un aiuto economico dal nipote Vincenzo (Murabito) figlio della sorella, giovane recluta dell’Arma dei Carabinieri, e diede corso al suo obbiettivo.
I primi, furono anni durissimi; l'unico posto disponibile da supplente era a Campo Melia, nelle campagne di Raccuja, dove si recava a piedi tutte le mattine partendo alle 4.00. Poi la sua condizione migliorò notevolmente riuscendo ad essere assegnato alla sede di Marzana. Sempre da raggiungere a piedi però: lo stipendio era di 32.000 lire al mese, ed il cappotto impermeabile comprato per proteggersi dall'acqua e dal freddo in quelle lunghe scarpinate era costato 36.000 lire (rateizzate). 
Trovava modo però sorprendentemente di prestare ( si fa per dire) o meglio dare qualche lira a chi ne aveva bisogno. È stato per anni presidente del disciolto ente comunale di assistenza ( ECA), che stilava una lista annuale di bisognosi a cui provvedere con dei periodici sussidi; per lui quella lista era sempre drammaticamente corta e sistematicamente la allungava ufficiosamente di tasca propria. Ricordo che dovevo preparare l'esame di Anatomia Umana e non volendo affogarmi nello sterminato Testut-Latarjet, colossale opera in 6 volumi di anatomia organica più 3 di topografica, già acquistata a rate da mio padre ( riuscì mai a comprare qualcosa cash?), decisi di chiedergli l'acquisto del Santoro ( 3 volumi) del valore di circa 3-400 mila lire; mi rispose che dovevo avere un po' di pazienza in quanto nell'arco di un paio di settimane sarebbe rientrato in possesso di una somma che aveva prestato ad una famiglia bisognosa di S.Michele. Passato tale periodo, tornai alla carica, ricevendo una risposta stizzita e l'invito ad onorare la spesa fatta ( i nove volumi del Testut!!!) senza cercare facili scorciatoie. A distanza di qualche anno venni a sapere tramite mia madre che la sua richiesta di restituzione del prestito non solo non era andata a buon fine, ma gli era costata altre 100 mila lire perdurando quella condizione di bisogno che l’aveva originato. 
Dicono che sia stato un educatore stimato ed amato da diverse generazioni di alunni e genitori, e da molti colleghi, fatta forse eccezione per qualcuno.  
Da fiduciario della Scuola elementare, infatti, ne curava anche gli aspetti amministrativi, tra cui la gestione della linea telefonica. La regola era univoca: il telefono serviva per ricevere e per fare comunicazioni di servizio. Il primo ad applicarla era lui, recandosi da Edda Cusmano per qualche telefonata privata. Questo gli causò parecchi malumori, dei quali invero non si curò più di tanto. L'onestà non fu mai per lui un valore negoziabile.  Dispensò nell’arco della sua attività, a titolo rigorosamente gratuito, centinaia di lezioni private, in particolare di inglese, lingua che parlava e scriveva correntemente in ragione del suo lungo soggiorno forzato in Inghilterra, nel periodo di prigionia. Tale conoscenza gli procurò anche un “secondo lavoro”, il patrocinio, sempre gratuito, di tutti gli emigranti australiani, e non solo, del circondario, per ogni tipo di pratica, dal visto di ingresso, alle traduzioni , alla compilazione di atti amministrativi, fino alle procure di matrimoni a distanza.
Quale presidente storico dell’Associazione Cattolica Ucriese, fu indubbiamente, per quasi trent’anni, il principale collaboratore laico del grande Padre Arciprete Antonino Gagliardi nella sua intensa azione pastorale dottrinaria e di solidarietà cristiana ed umana.

A distanza di alcuni anni dalla sua morte venni contattato da alcuni esponenti dell'amministrazione comunale allora in carica che con entusiasmo, ritengo sincero, mi comunicarono la loro intenzione, ampiamente condivisa dal consiglio, di intitolare la Scuola Elementare di Ucria alla sua memoria; li ringraziai sentitamente dichiarando la mia più completa disponibilità a collaborare. Non ne seppi più niente. Non so perché si cambiò registro in corso d'opera, forse per non fare ombra ad altri suoi validi colleghi. In effetti, non ha più molta importanza. Resto comunque dell'idea che l'avrebbe meritato. Ma il mio é un giudizio di parte.

Come padre non ci fece certo mancare  la sua premurosa presenza e meno che mai annoiare. Riusciva a coniugare nella stessa persona un grande rigore formale, sostenuto anche esteriormente dall'immancabile giacca e cravatta, con una sorprendente carica di distratta simpatia istintiva, associata ad una discreta quota di ironia ed autoironia, che spesso tracimavano nella comicità più bruciante ed assolutamente imprevedibile.  Come quando partiva di gran carriera per raggiungere la scuola al mattino, sempre in giacca e cravatta, ma con i pantaloni arrotolati al ginocchio, inseguito dai richiami di mia madre affinché si ricomponesse. Era una sua inspiegabile abitudine quella di entrare nel bagno quasi fosse un torrente in piena. Assai spesso, poi, doveva tornare indietro a riporre l'elenco telefonico o altro scartafaccio scambiato per il registro di classe.  O come quando ci trascinò tutti a Messina, compreso mio zio Francesco, in qualità di autista, a visita della baronessa di S.Giovanni, reduce da un intervento chirurgico, e ci cacciarono fuori, a ragione, in malissimo modo; nel salottino al primo piano dell'austero ed ombroso villino liberty, ove ci avevano invitati ad aspettare, in religioso silenzio, il risveglio, dal riposo pomeridiano, della anziana nobildonna, mio padre nel procedere gattoni inforcò una pila di sedie in pesante ferro battuto e porcellana decorata, addossata alla sommità della scala, e fu il finimondo: un frastuono terrificante giù per i gradini di marmo bianco, gambe e braccioli divelti, balaustre scheggiate, maioliche spezzate.  Ci consolammo per la visita mancata con arancini e pasta a forno di Nunnari e ce ne tornammo indietro senza dare all’occhio. O, ancora, come quando, si alternavano al citofono di casa venditori di varie merci, dalle castagne al pesce stocco, dal mosto di vino alla farina di mulino appena macinata e scaricavano in grande quantità contro le rimostranze di mia madre, sempre più atterrita, ma inesorabilmente zittita dalla fatidica frase "u maestru l'ordinau". Era generoso in tutto, pure nelle scorte di cantina, acquistate a rate, e che poi regolarmente andavano a male ancor prima che scadesse la prima o seconda rata. In casa era poi convinto di essere un imbattibile tuttologo: idraulico, elettricista, pilota d'automobile, esperto di conserve alimentari, pollice verde e cosi via. Fu una lunga teoria di allagamenti,  fragorose esplosioni di scaldabagni e bottiglie di pomodoro passato, ettolitri di aceto forte che neanche Ponti, roboanti e cavalcanti partenze a strappo, piante verdi e da fiore bruciate e polverizzate dalla sera alla mattina, in una sorta di day after. Questa volta aveva suonato al citofono don Turi u Mugnu con due enormi sacchi di stallatico di capra. Tuttavia non si perse mai d'animo e continuò a restare convinto.

E mi ritorna in mente una scena ricorrente. Erano i primi giorni di febbraio del '93, di un inverno assai freddo ed inclemente; mio padre, stava esalando gli ultimi respiri nel suo letto di casa, che nel tempo era divenuto il suo sudario, ed io ne ero pienamente consapevole. Solo che, letteralmente invischiato in turni di servizio subentranti, non ero riuscito a liberarmi, come pure avrei voluto.
Mi chiamò mia sorella, Rosaria, avvisandomi dell'imminente dipartita: “ Puoi venire a casa? papà si è aggravato...”
Queste erano state le poche, semplici parole di mia sorella, pronunciate con la stessa pesante leggerezza di chi sta enunciando i dieci comandamenti, leggendoli direttamente sulle tavole di pietra di Mosè. 
Ed allora partii subito, lasciando mia moglie e le mie due figlie. Feci la strada in surplace, in una sorta di quasi incosciente euforia; la letteratura psichiatrica spiega come tutto ciò sia normale e faccia parte dei meccanismi di rimozione con cui ci difendiamo dai dolori più insopportabili.
Entrai nella stanza e rivedetti mio padre. In pochi giorni era completamente cambiato, sembrava il Cristo velato di San Martino, immobile come una statua di cera.
Mi sedetti al suo capezzale, senza sapere bene neanche io cosa fare, se non reprimere il pianto.
Mio padre, d'improvviso, aprì gli occhi.
“Mario, sei tu?”
“Si papà, sono io”. Il suo viso contorto si sciolse in un accenno di sorriso. “Sono contento di poterti salutare per l'ultima volta!” “Perché dici questo, papà? Ce la farai, come l'altra volta”. Mio padre chiuse gli occhi. Poi, dopo un paio di secondi, li riaprì parzialmente. “Non stavolta. Stavolta è finita per davvero.” “Non sono preoccupato per me – continuò - ma per voi. Avrei voluto vivere qualche altro anno per potervi dare una mano; Maria Rita in particolare...ancora non lavora...avrei preferito che finisse gli studi universitari...”  Mi piace pensare che il suo adorato Dio in quel momento gli stava accordando una grande misericordia, risparmiandogli un’altra terribile prova.
Alzai gli occhi alla flebo, che svolgeva il suo lavoro inesorabile come una clessidra.
“Papà - mentii di nuovo - stai tranquillo, è esattamente quello che farai". “Non mi prendere in giro – rispose lui – sei medico, non devi dire bugie.... Te ne dovrai occupare tu. Oltre alla tua famiglia dovrai occuparti pure di loro. Le tue radici sono anche qui, dove io ho costruito la nostra famiglia.”
Lo farò – dissi – non ti preoccupare.”
“So che lo farai, mi sono sempre fidato di te... da quando vegliavi su di me.”
Si riferiva ad un fatto specifico. L'angoscia che mi agitava da bambino e mi portava a cercarlo con apprensione per le strade buie del paese quando tardava a rientrare la sera, in visita a qualche ammalato con l’inseparabile amico arciprete. 
Tacqui, un groppo alla gola strozzò la frase che avrei voluto pronunciare: "Grazie per la fiducia e grazie per l'immenso privilegio d'averti avuto come padre".
Giuseppe Maria Nici chiuse gli occhi serenamente, quasi sorridendo. Forse era ritornato con la mente ai bagliori di quella notte di marzo a Capo Matapan e alla Madonna del Rosario che si stagliava luminosa e mirabile tra i densi fumi neri. L’appuntamento allora rinviato veniva ora onorato. Mi alzai ed andai  a fumarmi una Multifilter rossa triplo filtro, appoggiato al davanzale del balcone, aperto nonostante il gelo e l’atmosfera innaturale, dai suoni ovattati  e dai colori grigio ghiaccio. Lo strano sentimento di assurda euforia riaffiorò, assai più forte di prima: il dolore era diventato strazio.

Quando la botola con vista sui ricordi si chiude c’è sempre un fondo di amarezza, per tanti motivi, per non aver vissuto pienamente la persona cara, non averla potuta conoscere meglio, non averla ascoltata più a lungo, non aver imparato da lei più compiutamente. Ma per fortuna resta sempre una traccia di luce, un messaggio.
Quello di mio Padre é senza dubbio quello della fede in DIO e/o della fiducia nell’UOMO, dell'impegno e dell'onestà. Diceva sempre ai suoi alunni:  “Ragazzi impegnatevi, studiate, faticate; dovete crederci  e non fermarvi, cadere e rialzarvi  perché la vita non sarà mai solo in discesa. E poi, qualunque cosa succeda, ricordatevi di essere onesti. Nessuno vi nega il diritto di sbagliare, ma nessuno vi perdonerà se dietro l’errore non c’è l’innocenza dell’onestà”. 


VOLERE BENE E' - Carmelina Allia -

VOLERE BENE E'
 - Carmelina Allia -
Volere bene e':
offrire nella gratuita':
.un cuore che accoglie,
.uno sguardo che incoraggia,
.un sorriso che allieta,
.una parola che conforta,
.una carezza che rassicura,.
.un braccio che sostiene
nel concreto tessuto della quotidianita'.
Volere bene e' :
condividere un cammino intrecciato di passi
.di fiducia e incertezza,
.di sogni e realta',
.di gioie e batticuori,
.di silenzi e parole,
.di stupore e malinconia,
.di coraggio e paura,
.di rinunce e desideri,
.di speranze e nostalgie
nella gioia del camminare insieme.
Volere bene e' :
.percorrere a piedi nudi il campo della vita dell'altro,
.scoprirne le perle che racchiude,
.spargervi semi di tenerezza
ed essere goccia di rugiada che fa fiorire!

(Con l'augurio che cio' si avveri per ciascuno che incontriamo)


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IXa uscita de "La Cruna dell'Ago"