QUEL CHE RESTA DELLA SERENATA
- Mario Nici -
Mi capita ancora, a distanza di un lustro ed in altri luoghi, di sentire
lontane nello spazio e nel tempo, ma del tutto nitide, quelle note che si
rincorrevano sotto il cielo di Ucria, dal tramonto fino a notte avanzata; in quel tempo le luci fioche ad incandescenza delle strade e dei vicoli,
sui radi bracci addossati in ferro battuto dell’ ente nazionale per l’energia
elettrica, ti lasciavano ancora vedere le stelle. Splendide, le note e le
stelle.
L’amicizia ed il sentimento d’amore erano sempre al centro della scena. Se
poi c’era la luna, la scenografia diventava a tratti stregata. La luna era
infatti il valore aggiunto, l’elemento romantico per definizione: la luna
siciliana, soprattutto, sempre candida nei nostri tersi cieli notturni, bella
come una dea, che al solo rivelarsi non poteva che suscitare una muta
contemplazione estatica.
E’ evidente che di giorno alla luce del sole, portare una serenata
non avrebbe avuto alcun senso; perciò si aspettava la notte quale momento
magico di silenzioso armonico raccoglimento per tradurre tutte le sensazioni in
musica e poesia. I nostri “musicisti” spesso suonavano e cantavano ad orecchio,
col solo apporto della musica strumentale eseguita all' impronta.
Per rintracciare il termine serenata bisogna spingersi fino alla fine del
‘500; esso veniva usato, anche in ambienti colti, come titolo di musiche quasi
esclusivamente vocali e, nel ‘600, in composizioni celebrative strumentali e
vocali, rivolte come omaggio a persone di riguardo. A partire dalla seconda
metà del ‘600, il termine venne utilizzato anche per dar titolo a brani
puramente strumentali, presenti anche nella produzione di grandi e celebri
compositori ( Mozart, Salieri e in tempi più recenti Brahms).
Nella tradizione popolare, che è quella dei nostri piccoli paesi e
risale fino ai tempi medievali, una serenata era un composizione suonata o
cantata come segno ed espressione d’amore o d’affetto per la persona
amata oppure un per amico che meritava d'essere onorato, tipicamente di sera
dinanzi una finestra o sotto un balcone. La voce si accompagnava con uno o più
strumenti; la fisarmonica, era la regina incontrastata, ed era a sua volta
accompagnata quasi sempre da chitarra acustica e mandolino, che con il loro suono
gentile e vibrato, risultavano sempre particolarmente adatti a creare un’
atmosfera di grande suggestione. L’incanto dei nostri vicoli discreti, sepolti
tra le case affastellate di Caffuti, Valle, Annunziata, nella magia della
sera, si fondeva con la musica e aiutava a rendere finalmente palesi i
sentimenti più schietti e reconditi. La cornice era pure essa d'autore, essendo
a quei tempi le strade tutte lastricate in pietra grigia più o meno annerita
dal tempo, talora con riflessi verderame per il depositarsi di una
sottile barba muschiosa verde-vellutata ai lati e sui muri rivolti a
settentrione, mentre la campagna attorno era "così bella verde
e, zappata, aveva il colore, sotto l’alba, dei volti bruciati”.
Ricordi arcaici mi incatenano a quei luoghi. Vagando nella memoria e
nei suoi strani meandri mi capita di incontrare volti di un tempo perduto.
Nitidi ed immutabili, nel ricordo. Sembra che il tempo non sia passato e la
luce tracciata dal susseguirsi dei giorni sia rimasta lì immobile nell’aria e
nello spazio fino alla sua fonte solare. Ma se vai nei vicoli deserti, come mi
é capitato di recente, respiri oggi solo un vago sentore di umanità, esaltata
dai reiterati abbandoni. Al posto del muschio, solo sterpi. Affiorano fantasmi
dai muri impastati di calce e argilla, strisciano personaggi d'altri tempi
dietro le finestre sconnesse, tra le crepe dei muri scrostati ed
attraverso qualche tetto scoperchiato. Poi ti capita di girare d'angolo ed
imboccare una strada più moderna ove il lastricato e le alzate di pietra sono
stati colpevolmente sostituiti da un nastro declive di neri mattoncini
vulcanici embricati tra due file di case strette ed alte; queste sono state
tutte o quasi tutte rifatte, conservando però l'identità elementare
originaria, case "di pendio", coi muri in comune, a vani allineati e
sovrapposti su uno o due piani, dove il pian terreno "catoio" ha
abdicato alla funzione di stalla e fienile, per cedere il posto ad un piccolo
anonimo salotto. In questi scorci di moderno il senso di absence è ancora più
forte, non più mitigato da alcuna traccia di vita vissuta, sepolta sotto uno
strato di intonaco color sabbia e cemento. Case senza tempo, per buona parte
disabitate, avvolte da un silenzio assordante,
Anche qui la musica si è spenta, i suonatori
sono andati.
Oggi è del tutto scomparsa, spazzata dalla rivoluzione digitale, la
serenata portata sotto la casa dell’amata come segno di corteggiamento. Né
poteva essere diversamente. Nel nostro mondo globalizzato, nel pieno dell’ era
di internet e dei social neet work, il modo più semplice per essere a vita
deriso sarebbe andare di notte sotto il balcone dell’innamorata a cantare note
del tipo:
"O Lola ch' ai di latti la cammisa / Si bianca e russa comu la cirasa
/ Quannu t' affacci fai la vucca a risa / Biato cui ti dà lu primu
vasu!".
Questo è , com'é noto, il famoso canto di Turiddu, all' alba del giorno di
Pasqua, rivolto a Lola, sua antica innamorata andata in sposa al
carrettiere Alfio. Ed è anche l’ attacco inequivocabile della "Cavalleria
rusticana", di Pietro Mascagni: cumpari Turiddu, lo spasimante disperato è
nel centro della piazza, con la sguardo all' insù, a mirare la sua bella. Oggi
sarebbe, in mancanza di armi da fuoco a portata di mano, prima sepolto sotto un
pentolone d’acqua fredda e poi sottoposto a TSO.
Tuttavia se non l’atto in sé, almeno lo spirito andrebbe recuperato. Le
serenate, espressione popolare spontanea e genuina del sentimento amoroso, le
troviamo negli scritti di numerosi poeti siciliani, da Giovanni Meli ad Antonio
Veneziano ed Alessio Di Giovanni, come anche nei lavori o nelle trascrizioni di
grandi antropologi, come Giuseppe Pitrè.
Nel nostro piccolo centro hanno resistito fino agli anni 70, poi con
l’avanzare del “progresso”, ad un dato momento, queste vecchie care usanze
hanno improvvisamente perso il sapore di prima, avviandosi al definitivo
tramonto.
Restano però intatte nella memoria mia e, credo, collettiva, di chi al par
mio non si trova più nel verde dei suoi anni. La loro suggestione era
grandissima e la loro utilità indiscutibile. Erano difatti i tempi in cui il
sentimento amoroso veniva vissuto con pudore, quasi in contumacia. Quelli in
cui non erano di certo le discoteche, le balere o i pub o le sezioni
sms/WhatsApp/Messenger degli smart-phone i luoghi della trasgressione, ma
lo spiazzale della chiesa Madre, di giorno ( “seduti sui gradini di una
chiesa aspettavamo che finisse messa e uscissero le donne”; Franco Battiato,
Prospettiva Nevskij –1980) e le finestre e balconi, di notte, pronti questi a
virare in palcoscenici del grande teatro del cuore, sorretti da sguardi,
animati da sospiri, mossi da qualche cenno d'intesa o da qualche fiore che
poteva essere reciso e lanciato, talvolta attraversati da un biglietto piegato,
col rischio che un refolo di vento se lo portasse altrove. Non appena infatti
scendevano le ombre e il crepuscolo si approssimava con la notte per mano, le
serenate guadagnavano rapidamente i balconi. A rispondere sommessamente al
canto ed ai sospiri erano spesso le imposte: ogni loro accenno, anche tardivo,
a dischiudersi poteva celare una velata risposta d' amore e ogni spiraglio di
luce, che da esse filtrava, essere il segnale di una ragazza in trepida attesa.
Di questo mondo romantico e conviviale è stato da noi incontrastato ed
indimenticabile protagonista Antonino Aquilia, al secolo, per tutti u Zu Ninu
Finucchieddu. Grande suonatore di fisarmonica, animatore inesauribile, una
contagiosa gioia di vivere, uomo di profonda umanità, è stato soprattutto
maestro naif di musica, ma anche di vita, per diverse generazioni di giovani e
meno giovani. U zu Ninu, la fisarmonica non la suonava soltanto, la sentiva
dentro, si muoveva con essa in un tutt’uno , quasi in un prolungamento
dell’anima, oltre gli stili e gli stilemi. Era in realtà profondamente
innamorato della sua terra difficile e delle sue tradizioni. Ricordo, ancora
oggi, quando mi raccontò, con una vena di nostalgia, nei primi anni ’80 - credo
fosse l’estate dell’’82 o ‘83-, seduti su una panchina di Piazza delle
Rimembranze (corsi e ricorsi), alcuni aneddoti, episodi vissuti e fatti storici
di questo culto amicale o amoroso, e di come per anni aveva stimolato i
futuri sposi suoi amici o amici dei suoi amici ed aveva tantissimo suonato per
loro in tante altre ricorrenze (nascite, partenze, ritorni, anniversari),
per rinverdire una tradizione che già allora si andava spegnendo.
Gli ultimi fuochi si erano avuti tra gli anni cinquanta/sessanta. Poi, con
l’avvento della televisione nazionale, ci si cominciò un po’ a
vergognarsi delle tradizioni popolari, del dialetto, come fosse roba
passata o addirittura volgare, da chiudere in soffitta e dimenticare, o roba
melense da emigranti nostalgici. Un destino analogo lo hanno avuto non solo le
nostre tradizioni strettamente locali, ma anche molta della cultura popolare
siciliana. Ed è anche socialmente giustificabile e comprensibile che ciò sia
avvenuto in un’era ancora non globalizzata, ove le vecchie usanze, la
tradizione e il dialetto costituivano una gabbia, arnesi arrugginiti da
nascondere, quasi una trappola in territori remoti, da sempre isolati, non
ancora calpestati dai sandali di Cristo, dato che questi non era andato mai
oltre Eboli. Ci aveva infatti rivelato Carlo Levi fin dal 1945: "come
in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli", a
debita distanza dai "contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia
e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore...”.
Oggi, dopo la sbornia di modernità dell’era televisiva e informatica,
appare chiaro che queste tradizioni rappresentano una bellissima integrazione
ed un complemento culturale ideale in una società dove con un semplice clic
ognuno, da contrada Pirato-Sicily, fino a Perth-WesternAustralia o a Karlsruhe–
Baden/Württemberg, può interagire con il mondo intero.
Ed una opportunità il cui recupero non può essere più rinviato, anche in
considerazione del privilegio di avere dei maestri come Gioacchino Cusmano,
Sebastiano Cuttone ed altri ottimi musicisti come Nino Crisà, Filippo Lembo,
Saro Murabito, solo per citarne alcuni, in grado di interpretare e diffondere
la nostra musica popolare in modo sapiente e cortese, restituendo vitalità e
prestigio ad un’ antica tradizione.
Di recente, in ricorrenza delle vacanze estive di questi ultimi anni, hanno
riproposto tutto il loro repertorio di motivi struggenti, azionando una sorta
di acustica macchina del tempo, che ha condotto magicamente i cittadini ucriesi
in una Sicilia oggi mille miglia distante, ma tutta da riscoprire.
A differenza dunque del film “Quel che resta del giorno”, che mi permetto
di citare solo perché ha ispirato il titolo di questo mio post, e che è
un lungo malinconico flash-back su ciò che è stato e ciò che, forse, avrebbe
potuto essere e non é mai stato, dello spirito della Serenata resta molto ed
altro ancora può essere recuperato; e l’entusiasmo ed il sincero
apprezzamento che accompagna sempre le estemporanee e disinteressate esecuzioni
sia in prima persona sia online (Serenata 2.0) di Gioacchino&Friends
rimane tutto intero a testimoniarlo.
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