IL FEDERALE
- Giuseppe Salpietro -
Fu uno degli uomini più potenti di
Messina nel periodo che si colloca a cavallo tra le due guerre, ma non se lo ricorda più nessuno. Non
ne sento mai parlare.
Era federale fascista, temuto e
rispettato. Lo ricordo in alcuni sbiaditi film Luce muoversi con passo sicuro accanto
al Duce mentre questi, in visita a Messina, inaugurava la rinnovata Stazione centrale o l’appena
eretto “Ospedale Regina Margherita”. Erano
i primi anni 30.
Fin da piccolo ebbi modo di
conoscerlo ed a causa della mia giovane età, o della sua, naturalmente già
avanzata, m’è parso da sempre anziano, ma in modo indefinito avendone
constatato una vitalità non comune.
Per parlare si serviva di una microfono
portatile a batterie che alla bisogna accostava al collo esattamente in una
zona dove era stata praticata una fessura. Esercitando una piccola pressione su
di esso attivava il “marchingegno”
che amplificava la fioca voce sibilante ottenendone, grazie all’ausilio, un
suono rauco e compatto simile a lievi continue martellate intermittenti come fosse
un telegrafo o una vecchia radio a valvole in cerca della giusta frequenza.
L’effetto era che nessuno imbastiva con lui lunghe conversazioni, ma tutti
eseguivano muti ed incerti da farsi.
“Ma chi dissi ?”.
Sempre apparentemente cortese nei modi, ma di natura ispida.
Forse perché ero innatamente
diffidente, forse perché già adolescente avevo maturato una mia personale idea
sul “ventennio”, non mi incantò mai, anche se ammiravo i tratti di una spiccata
forte personalità.
Solo talvolta, indulgendo
discretamente all’umana vanità, parlava del passato. Mi mostrò in una sola
occasione un vecchio libro nel quale, tanto l’aveva guardato, trovò subito la
sua biografia accostata ad una immagine fotografica che lo ritraeva a mezzobusto
da giovane. Ricordo vagamente un profilo severo con l’attaccatura dei capelli
sulla fronte alta, neri e lucidi, tirati all’indietro con abbondanti quantità
di brillantina Linetti.
Costui abitava in un villino a due
piani posto sulla circonvallazione, oggi Viale Regina Elena. La casa era
decorosa, ma non lussuosa. Oggi verrebbe considerata assolutamente comune. Dalla
strada un cancello in ferro a sagome rettangolari, consentiva l’accesso ad una
decina di scalini che superando il dislivello dallo stradone, conducevano ad
uno slargo rialzato dal quale si accedeva alla dimora.
Aveva avuto dal matrimonio tre figli,
due dei quali maschi. Uno di questi, che viveva nella casa paterna, lo segnò
certamente per il dispiacere, infatti dopo una breve vita travagliata a causa
di diverse problematiche legate alla sua salute cagionevole, gli premorì.
Quello che mi appariva stupefacente
dell’arzillo, considerato che ai tempi non erano percorribili le attuali
autostrade, era che ogni giorno con la sua utilitaria, una Fiat 850, passando
dai Colli San Rizzo, scorciatoia che un tempo si percorreva per valicare in
località “Quattro strade” i Monti Peloritani, percorreva l’intero tragitto da
Messina a San Piero Patti e talvolta Ucria e ritorno, per essere lì pronto a curare
le varie attività che il governo “da
robba” richiedeva.
Cose da pazzi pensavo, ad ottant’anni, con un’automobile sgarrupata, questa frenesia non comune. Neanche
il radiatore dietro la mascherina anteriore aveva. Quale ABS, il dispositivo
che evita il bloccaggio delle ruote; quale ESP, il congegno di controllo
elettronico della stabilità dinamica; quale TCS, che riduce il pattinamento
delle ruote e migliora la stabilità. Al tempo non erano contemplati. Imperterrito percorreva trecento chilometri
per ogni santo giorno, concedendosi una sorta di “fermo biologico” come per il
pesce negletto, solo nelle feste comandate, ma non certo per santificarle. Andava
e veniva, avanti ed indietro come un orologio a pendolo sia in estate, che in
inverno. Ma che aveva da fare l’ingegnere, quali erano i suoi affanni
quotidiani. Vero è che aveva proprietà, a sentire i più, vaste: u Nucidditu, Spaditta
…. , ma possibile che dovesse così frequentemente incontrare campieri, fimmini e sovrastanti per curare i suoi
interessi.
Penso proprio invece, che non si
fosse mai adattato al suo nuovo status di uomo qualunque. “Ci staunu stritti i panni” abituato com’era, un po’ per censo, un
po’ per ricchezza acquisita “a papariari”.
Si favoleggiava dei suoi arrivi ad
Ucria con questa enorme macchina scura, pare decappottabile, il cui “scrusciu du muturi si sintia i Rudaffi”.
Non so se frutto di diceria, ma sentivo per certo, che per amore del
gioco o per spavalderia, l’azzardo con le carte non gli era sempre propizio,
tant’è che più di una proprietà e di una casa passo di mano in un sol colpo.
Ad Ucria
abitava in palazzetto posto in via
Gaetano Algeri oggi stravolto nel suo stile originario, ma che ancora dovrebbe
conservare l’ampio androne e le scale in pietra locale. Al suo angolo rimasto
indenne, sotto l’ampio terrazzo dove erano un tempo riversate quintali di
nocciole ad asciugare al calore settembrino, vi era il garage delle sue
autovetture poi divenuto, in tempi più recenti, officina di riparazioni
meccaniche.
Possedeva, a dire il vero, anche una
Fiat Campagnola modello ’56, comunemente chiamata Jeep ma non lo era, che
ricordo spesso proprio in quel garage e che utilizzava, considerate le sue
diverse caratteristiche di trazione, per i percorsi più accidentati.
Proprio in occasione di un passaggio verso Ucria con la Campagnola, ebbi modo di incrociare a San Piero Patti
il noto Antonino
Spanò, il cui caso può essere certamente inserito nelle più clamorose vicende
di malagiustizia italiana.
Era l’ottobre del 1945 quando Spanò, originario di San Pietro Patti, fu accusato di avere ucciso nelle campagne di Ucria il benestante Francesco Baratta.
Era l’ottobre del 1945 quando Spanò, originario di San Pietro Patti, fu accusato di avere ucciso nelle campagne di Ucria il benestante Francesco Baratta.
Solo nel 1969 la Corte
d’Assise d’Appello proclamò l’assoluzione di Spanò « per non avere commesso il
fatto », ma dopo 23 anni, 8 mesi e 21 giorni di prigionia buona parte dei quali
trascorsi nel carcere dell’Isola d’Elba.
Passò il resto della sua
sfortunata vita facendo il messo notificatore presso il Comune San Pietro Patti.
L’ingegnere riposa anch’egli nel piccolo cimitero di Ucria, nessuno sfarzo, nessun
cenno all’antica temuta fama che talvolta, per necessità, doveva pur sostenersi
con copiose lubrificazioni di budella altrui mediante poco gradite dosi di olio
di ricino. Oggi, solo freddo granito.
Penso proprio che la morte
anche in questa circostanza, come in tante altre, abbia pareggiato gli esiti
finali, anche se questi, come gli altri,
merita un fiore dalle mani pietose dei vivi, avendo certamente espiato
anzitempo patendo l’aspra sofferenza già sulla terra.
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