IO EMIGRATA
- Angela Niosi -
Sono approdata in territorio
lombardo più di trenta anni fa.
Fino ad allora, le mie
conoscenze su di esso si limitavano a
nozioni scolastiche, pianura padana, coltivazione di mais, Milano città
industriale e sui racconti degli emigrati che tornavano al paese con l’accento
di lassù e che io ascoltavo quasi distrattamente.
Mai , allora, avrei pensato che ne avrei fatto
parte.
E invece, un giorno, sganciata
dall’abbraccio rassicurante del mio
paese e della mia famiglia, mi ritrovai anch’io a percorrere in treno tutta
l’Italia per fermarmi alla stazione di Milano centrale.
La prima cosa che mi colpì furono lo spazio e le
altezze: grandi
palazzi, grandi parchi, grandi piazze. Mi sentii colta da vertigini. E poi, gente, tanta gente, mia madre
avrebbe detto un popolo ebreo, che correva avanti e indietro, senza guardarti.
Mi aggrappai al ricordo del
mio paese dove, fin dal mattino, si sentivano saluti e buoni auguri che si
incrociavano riscaldando l’aria. Qui nessuno mi conosceva e nessuno aveva
voglia di conoscermi. Mi sentivo
smarrita.
Iniziai la mia nuova vita e i
primi tempi vissi due realtà, quella vera e quella immaginata lontana da lì, al
mio paese.
Mi informavo regolarmente su
quello che succedeva mentre io non c’ero, contavo i giorni che mi separavano da
una nuova partenza ma pian piano mi resi conto che andavano mancandomi
grossi pezzi di vita. Tentavo di ricucire quegli strappi facendomi raccontare,
al mio arrivo, tutto ciò che mi ero perso ma non era la stessa cosa. Vivevo le emozioni in differita.
Finii col rassegnarmi e con
l’adattarmi. Imparai anch’io a correre e
a non avere tempo, a dire un etto di Bologna anziché cento grammi di mortadella,
a non indicare più col dito ciò che desideravo dal panettiere o dal
fruttivendolo, visto che all’inizio non ci intendevamo sui nomi.
Mi interessai ai weekend e
alle settimane bianche, al brasato e alla polenta, iniziai a capire la paccata
di soldi e l’occhio della fronte, il parla quando canta la mucca e Dio come
sono impiccioni questi terroni.
Quasi senza
accorgermene,imparai ad amare la mia nuova vita, la mia nuova gente e non ci fu
più bisogno di recitare.
Recuperai me stessa e capii
che, anche lontana dalle mie radici, ero fiorita ugualmente.
Il mio paese aveva continuato
a nutrirmi e mi avrebbe allargato le sue braccia se solo io avessi
voluto abbandonarmi al suo calore.
Nella tua delicatissima testimonianza ci sono tutti, tratteggiati lievemente, l'incertezza, la paura, il senso di smarrimento per il distacco dalla terra natia e dai propri affetti. Il distacco, come separazione, è una esperienza connaturata al nostro essere sin dalla nascita, da quando, incerti, lasciamo la posizione carponi per camminare sulle nostre gambe. E ci riguarda un po' tutti: chi non ricorda la struggente nostalgia di Ugo Foscolo per l’allontanamento dalle “sacre sponde”? o il rimpianto della promessa sposa Lucia, ancora fanciulla, mentre da all'addio ai suoi monti? La nostra esistenza stessa inizia con un distacco, quello dal grembo materno, che ci dona la vita, e termina con un ultimo distacco.
RispondiEliminaIl distacco é sempre qualcosa di doloroso: lo testimonia il pianto sconsolato del bambino che si affaccia alla vita.
Tu però, Angela, riesci con garbo a far virare questo senso di perdita in una positiva conquista, in una esperienza necessaria per cambiare senza perdere.
Una porta che si schiude all’interno di una stanza buia, ma che una volta illuminata può rivelarsi essere una utile finestra su ciò che ci circonda .
"Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuovi mondi, ma guardare il mondo con occhi nuovi" ( Marcel Proust)