LA MACCHINA/ FERCOLO
- Giuseppe Salpietro –
Tuonava
padre Gagliardi dal pulpito
ricordando alle pie donne che i loro mariti dovevano presentarsi ad orario
adeguato dopo la solenne funzione religiosa per offrire il loro supporto fisico
alla buona riuscita della processione “du Signuri a Pietà” e non si dovevano
invece fare cercare, come sempre ed
all’ultimo minuto, “barri barri” e “putichi putichi”.
Era infatti malcelata una certa disaffezione di molti
uomini del paese alla spo(ì)ntanea partecipazione ai riti tradizionali delle
cerimonie liturgiche ed in particolare alle processioni, realizzate da millenni
in tutte le comunità umane con intento di espiazione e di propiziazione. Duro era il caricarsi in spalla, per alcune
ore, i pesanti simulacri tra Valle e
Santa Nicola.
Bisognava
risolvere degnamente il problema, ma
le risorse come sempre erano scarse, ed allora un moderno Archimede si misi a “traffichiari” nella sua officina
meccanica dove per alcuni mesi si lavorò silenziosamente al progetto. Fu allo scopo
sacrificata alla bisogna una vecchia Fiat
Topolino (500 C) progettualmente sviluppata durante il periodo fascista per
motorizzare gli italiani con una vettura economica che non superasse il costo
di 5.000 lire, che il proprietario Sebastiano Maturi immolò per la causa e della
quale fu recuperato integralmente lo sciassì con il suo sistema di guida, le
ruote, i freni e quant’altro necessitasse. Scomparvero nella grossolana
demolizione la carrozzeria sostituita da una struttura in legno dalla forma
poco ardita ( una specie di scatolone con le ruote ), ed i sedili, anch’essi
divenuti ingombranti per l’angusto spazio interno che residuava.
Ma la passione del giovane meccanico Sebastiano era tanta, l’entusiasmo sosteneva ed
il lavoro procedeva alacremente. Alla fine grazie al contributo dell’abile falegname Nunziato Casella, venne
fuori una sorta di tre volumi da mastro Geppetto, due dei quali, piccole
protuberanze smussate del parallelepipedo, consentivano la salita di qualche
devoto per l’allestimento ed i bisogni del breve tragitto, compito esclusivo
per decenni del sig. Gullotti detto
“nascaredda”. Lo strano veicolo fu dotato di un piccolo sportello
perfettamente occultato da una chiusura a filo per consentire la salita a chi
doveva manovrare e di un finestrino anteriore a semiluna per garantire una visibilità di guida
sufficiente.
Era quasi pronta la “cosa”, ma mancava l’estro
artistico. Ecco allora intervenire
l’artista poliedrico locale Panzalorto
che con pennellate sicure donò al brutto anatroccolo le ali.
Era bravo sul serio il sig. Giuseppe Panzalorto detto Peppino con i pennelli, ma
ricordo ancora meglio la moglie, la postina Vincenzina, che sempre con un
sorriso stampato sul volto s’inerpicava per i viottoli delle varie contrade per
recapitare le attese lettere dei parenti lontani e qualche bolletta, consegna
sempre accompagnata dallo scambio cordiale di una chiacchiera sul tempo o sulla
salute incerta del destinatario.
Nel suo piccolo era potente quanto il medico, il
farmacista o l’Arciprete, dipendendo da lei l’appagamento di attese durate
giorni, settimane, mesi. I molti parenti
che si trovavano all’estero in ogni dove, anche in Continenti lontani, in tempi
nei quali erano ignoti gli sms, i whats app, i messengers ed altre diavolerie
attuali, non potevano che affidare alle sgrammaticate missive i loro sentimenti
autentici, i loro ricordi belli ed i loro propositi di ritorno nell’ancora più
amato paese. Era l’antenna che permetteva al mondo di penetrare i monti e
superare i mari, la signora Skype.
Panzalorto ci lavorò non più di tanto tra fine agosto e
settembre seduto sopra uno sgabellino traballante, posizione che gli consentiva
di tenere i propri occhi fissi all’altezza del manufatto, ma il risultato fu
egregio, essendo egli riuscito a dare forma e sostanza ai simboli unificatori
della comunità civile e religiosa ucriese. Da un lato dipinse la Chiesa Madre
di San Pietro Apostolo, per gli ucriesi “a
Matrici”, con il suo prospetto e il maestoso portale aggettato sul piccolo
sagrato, ed ancora, la scalinata d’accesso laterale con le sue alzate, il
campanile e la piazzetta, e poi dall’altro, Monte Castello con la raffigurazione a valle delle due Chiese del Santo
Rosario e di Santa Maria della Scala.
Per dirla
alla messinese, la “machina festiva” era pronta per i riti.
Ma a quali mani poteva essere affidata la sua
conduzione se non a quelle esperte e giovani del suo realizzatore??? Ed allora, l’abile e preciso Sebastiano
si mise alla guida, manovrando nei decenni successivi senza mai cederne il
controllo quello sterzo che sembrava uscito da un fumetto di Topolino.
Mentre il tempo trascorreva inesorabile, la
coreografia della festa via via mutava, ma non la sua essenza. Diminuivano le
bancarelle straripanti di calia, cannella e torrone. Scomparivano per sempre i
venditori di vestiti e scarpe da lavoro, di arnesi come la ronca e l’accetta,
come quelli di gilet e “causi” di velluto a coste. Invecchiavano le tante donne
(compresa mia madre), che immancabilmente a piedi nudi, seguivano con devozione
estatica la processione con la mano protesa in avanti in atto di spinta nel
piccolo viaggio di esaltazione della loro fede.
Oggi il trascinamento della “macchina/fercolo” è affidato alle energiche donne del paese
agghindate uniformemente a festa con un foulard rosso annodato al collo, che
aggrappate a due grosse funi, vincono simbolicamente con la loro tenacia ogni
difficoltà del percorso nella continuazione simbolica di un processo di
esaltazione del sentimento religioso e sociale del gruppo. Un procedere
ordinato e lento, che sembra potenziare l’unione religiosa della comunità.
E’ rimasto
però immutato l’invisibile condottiero.
Smilzo, quasi ossuto quanto basta per infilarsi a fatica nell’abitacolo.
Preciso oltre misura per innata capacità e carattere. Tanto garbato nei modi,
che esito a pensare che abbia mai alzato la voce per farsi sentire oltre
l’interlocutore diretto.
Ricordo a
riprova, la sua 500L rosso amaranto che teneva un tempo “stipata” nel garage
officina. Scommetterei che non v’era
macchina meglio tenuta in Sicilia, coccolata come una compagna di vita, rimasta
perfetta per tanti lustri in funzione delle continue cure. Come tanti, diceva
di aborrire le macchine con cambio sincronizzato che non necessitavano di “doppietta”, o doppio disinnesto,
per scalare alla marcia più bassa e penso proprio che mai, ritenendolo
sacrilegio, abbia provocato lo stridio casuale di un cambio di marcia
impreciso.
E’ passato quasi mezzo secolo, una vita, ma Sebastiano
è stato sempre lì, ancorato con le mani strette al volante del suo simulacro,
vivendo la sua devozione dal posto più scomodo di tutti dentro il Fercolo scatoletta con le ruote da lui stesso
realizzato, ma come nessun’altro vicino “o
Signuri a Pietà”.
Prosegua
allora il rito immutato nei secoli, ed in coro “u Signuri mi n’aiuta vivi, u
Signuri a Pietà”.
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