domenica 22 marzo 2015

LA MACCHINA/ FERCOLO - Giuseppe Salpietro –

LA MACCHINA/ FERCOLO
- Giuseppe Salpietro –


Tuonava padre Gagliardi dal pulpito ricordando alle pie donne che i loro mariti dovevano presentarsi ad orario adeguato dopo la solenne funzione religiosa per offrire il loro supporto fisico alla buona riuscita della processione “du Signuri a Pietà” e non si dovevano invece fare cercare, come sempre ed  all’ultimo minuto, “barri barri” e “putichi putichi”.
Era infatti malcelata una certa disaffezione di molti uomini del paese alla spo(ì)ntanea partecipazione ai riti tradizionali delle cerimonie liturgiche ed in particolare alle processioni, realizzate da millenni in tutte le comunità umane con intento di espiazione e di propiziazione. Duro era il caricarsi in spalla, per alcune ore, i  pesanti simulacri tra Valle e Santa Nicola.
Bisognava risolvere degnamente il problema, ma le risorse come sempre erano scarse, ed allora un moderno Archimede si misi a “traffichiari” nella sua officina meccanica dove per alcuni mesi si lavorò silenziosamente al progetto. Fu allo scopo sacrificata alla bisogna una vecchia Fiat Topolino (500 C) progettualmente sviluppata durante il periodo fascista per motorizzare gli italiani con una vettura economica che non superasse il costo di 5.000 lire, che il proprietario Sebastiano Maturi immolò per la causa e della quale fu recuperato integralmente lo sciassì con il suo sistema di guida, le ruote, i freni e quant’altro necessitasse. Scomparvero nella grossolana demolizione la carrozzeria sostituita da una struttura in legno dalla forma poco ardita ( una specie di scatolone con le ruote ), ed i sedili, anch’essi divenuti ingombranti per l’angusto spazio interno che residuava.
Ma la passione del giovane meccanico Sebastiano era tanta, l’entusiasmo sosteneva ed il lavoro procedeva alacremente. Alla fine grazie al contributo dell’abile falegname Nunziato Casella, venne fuori una sorta di tre volumi da mastro Geppetto, due dei quali, piccole protuberanze smussate del parallelepipedo, consentivano la salita di qualche devoto per l’allestimento ed i bisogni del breve tragitto, compito esclusivo per decenni del sig. Gullotti detto “nascaredda”. Lo strano veicolo fu dotato di un piccolo sportello perfettamente occultato da una chiusura a filo per consentire la salita a chi doveva manovrare e di un finestrino anteriore a semiluna per  garantire una visibilità di guida sufficiente.
Era quasi pronta la “cosa”, ma mancava l’estro artistico. Ecco allora intervenire l’artista poliedrico locale  Panzalorto che con pennellate sicure donò al brutto anatroccolo le ali.
Era bravo sul serio il sig. Giuseppe Panzalorto detto Peppino con i pennelli, ma ricordo ancora meglio la moglie, la postina Vincenzina, che sempre con un sorriso stampato sul volto s’inerpicava per i viottoli delle varie contrade per recapitare le attese lettere dei parenti lontani e qualche bolletta, consegna sempre accompagnata dallo scambio cordiale di una chiacchiera sul tempo o sulla salute incerta del destinatario.
Nel suo piccolo era potente quanto il medico, il farmacista o l’Arciprete, dipendendo da lei l’appagamento di attese durate giorni, settimane, mesi. I molti parenti che si trovavano all’estero in ogni dove, anche in Continenti lontani, in tempi nei quali erano ignoti gli sms, i whats app, i messengers ed altre diavolerie attuali, non potevano che affidare alle sgrammaticate missive i loro sentimenti autentici, i loro ricordi belli ed i loro propositi di ritorno nell’ancora più amato paese. Era l’antenna che permetteva al mondo di penetrare i monti e superare i mari, la  signora Skype.
Panzalorto ci lavorò non più di tanto tra fine agosto e settembre seduto sopra uno sgabellino traballante, posizione che gli consentiva di tenere i propri occhi fissi all’altezza del manufatto, ma il risultato fu egregio, essendo egli riuscito a dare forma e sostanza ai simboli unificatori della comunità civile e religiosa ucriese. Da un lato dipinse la Chiesa Madre di San Pietro Apostolo, per gli ucriesi “a Matrici”, con il suo prospetto e il maestoso portale aggettato sul piccolo sagrato, ed ancora, la scalinata d’accesso laterale con le sue alzate, il campanile e la piazzetta, e poi dall’altro, Monte Castello con la raffigurazione a valle delle due Chiese del Santo Rosario e di Santa Maria della Scala.
Per dirla alla messinese, la “machina festiva” era pronta per i riti.
Ma a quali mani poteva essere affidata la sua conduzione se non a quelle esperte e giovani del suo realizzatore??? Ed allora, l’abile e preciso Sebastiano si mise alla guida, manovrando nei decenni successivi senza mai cederne il controllo quello sterzo che sembrava uscito da un fumetto di Topolino.
Mentre il tempo trascorreva inesorabile, la coreografia della festa via via mutava, ma non la sua essenza. Diminuivano le bancarelle straripanti di calia, cannella e torrone. Scomparivano per sempre i venditori di vestiti e scarpe da lavoro, di arnesi come la ronca e l’accetta, come quelli di gilet e “causi” di velluto a coste. Invecchiavano le tante donne (compresa mia madre), che immancabilmente a piedi nudi, seguivano con devozione estatica la processione con la mano protesa in avanti in atto di spinta nel piccolo viaggio di esaltazione della loro fede.
Oggi il trascinamento della “macchina/fercolo” è affidato alle energiche donne del paese agghindate uniformemente a festa con un foulard rosso annodato al collo, che aggrappate a due grosse funi, vincono simbolicamente con la loro tenacia ogni difficoltà del percorso nella continuazione simbolica di un processo di esaltazione del sentimento religioso e sociale del gruppo. Un procedere ordinato e lento, che sembra potenziare l’unione religiosa della comunità.
E’ rimasto però immutato l’invisibile condottiero. Smilzo, quasi ossuto quanto basta per infilarsi a fatica nell’abitacolo. Preciso oltre misura per innata capacità e carattere. Tanto garbato nei modi, che esito a pensare che abbia mai alzato la voce per farsi sentire oltre l’interlocutore diretto.
Ricordo a riprova, la sua 500L rosso amaranto che teneva un tempo “stipata” nel garage officina. Scommetterei che non v’era macchina meglio tenuta in Sicilia, coccolata come una compagna di vita, rimasta perfetta per tanti lustri in funzione delle continue cure. Come tanti, diceva di aborrire le macchine con cambio sincronizzato che non necessitavano di “doppietta”, o doppio disinnesto, per scalare alla marcia più bassa e penso proprio che mai, ritenendolo sacrilegio, abbia provocato lo stridio casuale di un cambio di marcia impreciso.
E’ passato quasi mezzo secolo, una vita, ma Sebastiano è stato sempre lì, ancorato con le mani strette al volante del suo simulacro, vivendo la sua devozione dal posto più scomodo di tutti dentro il  Fercolo scatoletta con le ruote da lui stesso realizzato, ma come nessun’altro vicino “o Signuri a Pietà”.

Prosegua allora il rito immutato nei secoli, ed in coro “u Signuri mi n’aiuta vivi, u Signuri a Pietà”.







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