domenica 22 marzo 2015

LA SARTORIA - Angela Niosi -

LA SARTORIA
Angela Niosi -


Un locale più lungo che largo, affacciato sulla via principale, dalla quale lo separavano due gradini di pietra rosicchiati dall’usura, larghe assi di legno chiaro incastrate a mosaico a formare il pavimento e un intenso odore di stoffe.
Ad illuminarlo, una grande porta a due ante  o forse tre, con un bisogno disperato di una mano di vernice.
Così ricordo la sartoria di mio padre.
Entrando, a destra, si allungava accanto al muro un tavolo a due piani di legno massiccio, che a me sembrava enorme, sul quale erano appoggiati disordinatamente vari attrezzi.
Dominava, su tutti, un austero e pesantissimo ferro da stiro con un manico cilindrico di legno, fissato solo da una parte che  poggiava su una spessa tavola foderata di lamiera ,gli faceva compagnia una bacinella piena d’acqua nella quale mio padre immergeva la mano a catturarne un po’ per poi spruzzarla sui vestiti da stirare.
Il ferro era alimentato dal gas ed io avevo il divieto assoluto di avvicinarmici.  A dire il vero erano tante le cose da cui dovevo stare alla larga, un posto pericolosissimo pensavo dentro di me, quando da bambina mi recavo lì nei pomeriggi dopo la scuola.
Sostavano ,sul tavolone, forbici di varia misura e forma , righe e squadre, puntaspilli, aghi, gessetti quadrati, lisci come sapone, con cui mio padre tracciava piccole stradine sulla stoffa, cuscinetti che si inserivano nelle rotondità delle maniche per agevolarne lo stiro, spagnolette bianche, nere e colorate, rocchetti.
E ancora, robusti semicerchi di legno, cerniere, fermagli, bottoni, ditali con cappuccio o senza testa.
Accanto al tavolo, ricordo un mobiletto con due antine dentro il quale erano conservati  i campionari, sorta di grossi libri che non contenevano parole ma  piccoli quadrati di stoffa impilate a formarne le pagine e le stoffe, arrotolate intorno ad un’anima di cartone.
Dall’altra parte del muro, un rettangolo di assi cilindriche formava una specie di capanna, lì erano parcheggiati, appesi alle grucce, gli abiti in via di formazione. In un angolo, seminascosto, colpiva un inquietante busto di legno senza testa dove mio padre provava i vestiti.
Vicino alla porta, che era anche l’unica fonte di luce, c’era una delle due macchine da cucire, quella più usata. Aveva,secondo me, un posto d’onore ed era la cosa che maggiormente attirava la mia attenzione. Sembrava una giraffa china a brucare l’erba, solo che non brucava ma, miracolosamente, azionando un pedale che faceva ballare i piedi, aveva la magia di mettere insieme i pezzi di stoffa.
Prima di usarla, bisognava infilare l’ago e si regolava girando la ruota posteriore. Ogni tanto bisognava  
passare l’olio sugli ingranaggi per non farli inceppare.
E poi c’era lui, mio padre, che consideravo alla stregua di un eroe.
Riesco quasi a vederlo chino sulle stoffe, il metro perennemente appoggiato sulle spalle  e un lembo di lingua incollata al labbro superiore, come a dargli più carica.
Osservavo le sue mani grassottelle, che mostravano una grande agilità nel correre avanti e indietro sulla stoffa, il ditale argentato a proteggerlo nella spinta dell’ago e lo strappo del filo con i denti.
Lo ricordo chino sul tavolone intento a disegnare sulla carta il modello dell’abito o mentre faceva  le prove ai clienti, immobili e fiduciosi. E le loro richieste e le sue risposte.
Poi arrivava l’ora della chiusura,lo capivo dall’espressione che notavo sul suo viso mentre guardava l’orologio a cucù che ci spiava dall’alto del muro mezzo scrostato.
 Metteva in ordine gli attrezzi e spegneva il gas, quindi  spruzzava dell’acqua sul pavimento di legno per appesantire la polvere così da farla rimanere  inchiodata al suolo  e ci passava sopra una vecchia scopa; a volte questo lavoro lo faceva fare a me. Infine, sollevava gli scuri, che immaginavo pesantissimi, e con un po’ di fatica li appoggiava ai vetri cercando di farli incastrare ma  non sempre ci riusciva al primo colpo e allora gli scappava un” maliditta ‘a miseria”. E io ridevo di nascosto.

Poi chiudeva la porta  con due giri di chiave e mi portava al bar: mi ero meritata i biscottini di don Garbeli.   

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