LA SARTORIA
Angela Niosi -
Un locale più
lungo che largo, affacciato sulla
via principale, dalla quale lo separavano due gradini di pietra rosicchiati
dall’usura, larghe assi di legno chiaro incastrate a mosaico a formare il
pavimento e un intenso odore di stoffe.
Ad illuminarlo, una
grande porta a due ante o forse tre,
con un bisogno disperato di una mano di vernice.
Così ricordo la sartoria di mio padre.
Entrando, a destra, si allungava accanto al muro un
tavolo a due piani di legno massiccio, che a me sembrava enorme, sul quale
erano appoggiati disordinatamente vari attrezzi.
Dominava, su tutti, un austero e pesantissimo ferro da
stiro con un manico cilindrico di legno, fissato solo da una parte che poggiava su una spessa tavola foderata di
lamiera ,gli faceva compagnia una bacinella piena d’acqua nella quale mio padre
immergeva la mano a catturarne un po’ per poi spruzzarla sui vestiti da
stirare.
Il ferro era
alimentato dal gas ed io avevo il divieto assoluto di avvicinarmici. A dire il vero
erano tante le cose da cui dovevo stare alla larga, un posto pericolosissimo
pensavo dentro di me, quando da bambina mi recavo lì nei pomeriggi dopo la
scuola.
Sostavano ,sul tavolone, forbici di varia misura e forma
, righe e squadre, puntaspilli, aghi, gessetti quadrati, lisci come sapone, con
cui mio padre tracciava piccole stradine sulla stoffa, cuscinetti che si
inserivano nelle rotondità delle maniche per agevolarne lo stiro, spagnolette
bianche, nere e colorate, rocchetti.
E ancora, robusti semicerchi di legno, cerniere,
fermagli, bottoni, ditali con cappuccio o senza testa.
Accanto al tavolo, ricordo
un mobiletto con due antine dentro il quale erano conservati i campionari, sorta di grossi libri che non
contenevano parole ma piccoli quadrati
di stoffa impilate a formarne le pagine e le stoffe, arrotolate intorno ad
un’anima di cartone.
Dall’altra parte del muro, un rettangolo di assi
cilindriche formava una specie di capanna, lì erano parcheggiati, appesi alle
grucce, gli abiti in via di formazione.
In un angolo, seminascosto, colpiva un inquietante busto di legno senza testa
dove mio padre provava i vestiti.
Vicino alla porta, che era anche l’unica fonte di luce,
c’era una delle due macchine da cucire, quella più usata. Aveva,secondo me, un
posto d’onore ed era la cosa che maggiormente attirava la mia attenzione.
Sembrava una giraffa china a brucare l’erba, solo che non brucava ma,
miracolosamente, azionando un pedale che faceva ballare i piedi, aveva la magia
di mettere insieme i pezzi di stoffa.
Prima di usarla, bisognava infilare l’ago e si regolava
girando la ruota posteriore. Ogni tanto bisognava
passare l’olio sugli ingranaggi per non farli inceppare.
E poi c’era
lui, mio padre, che consideravo alla stregua di un eroe.
Riesco quasi a vederlo chino sulle stoffe, il metro
perennemente appoggiato sulle spalle e
un lembo di lingua incollata al labbro superiore, come a dargli più carica.
Osservavo le sue mani grassottelle, che mostravano una
grande agilità nel correre avanti e indietro sulla stoffa, il ditale argentato
a proteggerlo nella spinta dell’ago e lo strappo del filo con i denti.
Lo ricordo chino sul tavolone intento a disegnare sulla
carta il modello dell’abito o mentre faceva
le prove ai clienti, immobili e fiduciosi. E le loro richieste e le sue
risposte.
Poi arrivava l’ora della chiusura,lo capivo
dall’espressione che notavo sul suo viso mentre guardava l’orologio a cucù che
ci spiava dall’alto del muro mezzo scrostato.
Metteva in ordine gli attrezzi e spegneva il
gas, quindi spruzzava
dell’acqua sul pavimento di legno per appesantire la polvere così da farla
rimanere inchiodata al suolo e ci passava sopra una vecchia scopa; a volte
questo lavoro lo faceva fare a me. Infine, sollevava gli scuri, che immaginavo
pesantissimi, e con un po’ di fatica li appoggiava ai vetri cercando di farli
incastrare ma non sempre ci riusciva al
primo colpo e allora gli scappava un” maliditta ‘a miseria”. E io ridevo di nascosto.
Poi chiudeva
la porta con due giri di chiave e mi
portava al bar: mi ero meritata i biscottini di don Garbeli.
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