Una frequente attività alla quale non si sottraeva
nessuno dei paesani, specie coloro che frequentavano saltuariamente il Paese,
era la visita ai “motticeddi”. L’unica via
d’accesso al Cimitero di Ucria era costituita un tempo dalla via Cecata. Forse chiamata così perché cieca, senza sbocco su altra via, quasi
ad indicare metaforicamente a chi la percorreva “ahinoi” sulle spalle altrui in
posizione orizzontale, che il percorso era senza ritorno. Essa, a causa della
notevole pendenza che la caratterizzava in alcuni tratti, sembrava progettata per
offrire occasione di penitenza terrena, avvicinando, tra un fiatone e l’altro a
bocca spalancata, le persone anziane al momento del trapasso nel quale sapevano
di dovere “renniri l’anima a Diu”.
Per questo, si
percorreva a passo lento leggermente inclinati in avanti alla ricerca del
proprio baricentro, inerpicati nel
pendio che ad ogni metro, quasi per ricompensa, a levante offriva allo sguardo
nuovi e più ampi dettagli. Nell’erta, si superava sempre sulla sinistra, un
luogo da noi conosciuto come l’orto di Scaglione, il temuto ingegnere Federale
di Messina durante il periodo fascista e poi, meraviglia, s’incominciava ad
intravvedere la scalinata che conduceva innanzi al Convento cinquecentesco dei
Domenicani. Gli scaloni tradizionalmente di pietra arenaria locale che ricordo
tondeggianti al bordo esterno della pedata erano perfettamente integri ma lisi
a cagione delle frequenti intemperie e del continuo calpestio. Composta da più
rampe, consentiva di arrivare alla prima
piazzola di sosta contrassegnata ancora oggi da una croce in ferro e da lì,
percorrendola oltre, si giungeva innanzi all’antico complesso religioso che
ricomprendeva i resti, allora ancora chiaramente leggibili, del Convento e
delle due Chiese Del Santo Rosario e di Santa Maria della Scala ormai allo
stato di rudere.
Il manto di
catrame della circonvallazione poi realizzata che oggi agevola l’accesso ai
luoghi, ha reso monca la scalinata e modificato irrimediabilmente l’armonioso
assetto, portando via per sempre quel carico di magia e di pace che quel luogo
ispirava.
Un tempo l’unico accesso al Camposanto era razionalmente
posto alla base di una stretta salita il cui percorso è ancora oggi
contrassegnato da alti ed eleganti cipressi, che sembrano con la loro imponente
presenza, fugare ogni dubbio sulla destinazione del luogo. La stradina perimetra a sud ed ad ovest la chiesa sconsacrata di Santa
Maria della Scala, con il suo accesso delimitato a valle da un cancelletto
ancora esistente esteticamente semplice ma decoroso, i cui battenti al movimento,
a causa dello stridio di ferraglia che ne derivava rafforzavano la soggezione
che già di per se il luogo incuteva.
Conobbi Paesi
interi, intere generazioni così,
visitando ripetutamente quel luogo per anni: nonni, zii, cugini primi, secondi
e terzi, e tutti i parenti di ogni ordine e grado.
Osservando le tombe, che ad una ad una venivano passate
al setaccio, leggendo nomi, guardando foto e riflettendo sul solenne epitaffio
che quasi sempre esaltava la generosità dei parenti in vita: “I
figli ….. con affetto posero ….”, talvolta mi capitava di cogliere la
sensazione strana, che quel volto offerto all’umano ricordo tristemente
immortalato in posa rigida e solenne l’avevo già visto il giorno prima.
Quasi commosso per l’inattesa dipartita, ancora imberbe,
chiedevo subito notizie “e comu fù, u visti aeri ‘ntà chiazza”, ma pian piano con l’esperienza capii,
considerato il ripetersi dello strano ed innaturale fenomeno che avrebbe potuto
giustificarsi solo con il diffondersi di una improvvisa epidemia che aveva
fatto tirare le cuoia a buona parte del Paese, che invece, si trattava solo di
lucida, concreta, umana lungimiranza.
Uomini e donne abituati a patire mille traversie, mille
privazioni, abituati a maneggiare giorno dopo giorno e per una vita la terra,
quella stessa terra che era stata fonte
di nutrimento per loro ed i loro figli, non facevano altro che pensare
anzitempo al loro trapasso evitando “camorrie” ai parenti.
“Polvere siamo e polvere torneremo”, bisognava solo
abituare se e gli altri all’idea, magari accettando compiaciuti qualche
crisantemo o altro fiore reciso riposto per errore da vivi, ma era fondamentale
gestire anzitempo il momento. Programmare i dettagli: foto scelta con cura,
epitaffio, iscrizioni comprensive della data di nascita, e poi ancora: marmo,
portafiori, esposizione assolata, vicini di … loculo e financo la banda.
Di tanto in
tanto, tali “aspiranti” si recavano a dare una spolveratina alla loro tomba già
fornita di ogni comfort compresa l’immagine fotografica selezionata fra le
migliori, sempre però seriosa ed austera, evidentemente riflettendo nel mentre,
su un dopo meno effimero, ma parimenti con il medesimo panorama goduto in vita
possibilmente “chi nucidderi” che
coloravano il loro paradiso terreno di colori mutevoli in relazione
all’alternanza delle stagioni.
Conobbi anche chi per necessità si privò di tutto per una
vita, ma non potette fare a meno di programmare più che dignitoso il proprio
funerale, il proprio “accumpagnamentu”.
In particolare ricordo “a ‘gnura ….”. Normalmente e in tutte le stagioni,
girava per le vie a piedi scalzi e vestiva di povere vesti. Un abito per
l’estate marrone scuro e uno per l’inverno grigio, entrambi logori, ormai senza
forma e resi attillati alla vita, come fosse una monaca, mediante una stretta
corda che faceva presa ad un grossolano nodo.
Si diceva che
non portasse biancheria intima e per abitudine atavica gli bastasse divaricare
le gambe nella vicina campagna, ma era una diceria, perché è certo che talvolta “u rinali” l’ho visto io “sduvacari a cu passa passa” frettolosamente
dal balcone sulla pubblica via.
Penso proprio,
che i “caddi” sotto la pianta dei piedi ormai fungessero da solette,
tanto era naturale il suo movimento, il suo incedere. Ma la morte no, quella
doveva essere programmata anzitempo nei dettagli più minuziosi. Non sobria, ma
vistosa al punto giusto. Aveva cinque figli e il suo amore arrivò a tal punto
da pagare anzitempo una ghirlanda per ciascuno di loro: “non putiunu fari mala figura
all’occhi di genti”.
E crepi allora l’avarizia.
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