domenica 22 febbraio 2015

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MIO NONNO ERA UN MASTRO SCALPELLINO

MIO NONNO ERA UN MASTRO SCALPELLINO
- Maria Scalisi –

L’abilità nelle mani di chi conosce il proprio mestiere: Scalisi Calogero, mio nonno, mastro scalpellino di Ucria.
Una tradizione ormai persa è quella dei maestri scalpellini.
Le nostre radici non le possiamo dimenticare, mi piace sapere e, soprattutto, far sapere la storia, che ha formato le nostre identità culturali.
Io mio nonno non l'ho conosciuto; lui lavorava per la ditta Puglisi di Messina e si occupava per lo più di  costruzioni di centine per i ponti, e di tutti gli elementi che compongono un ponte, e non solo.
I miei  cugini Vinciullo con il padre, anche loro abili scalpellini, hanno costruito opere, oggi ancora visibili:
- La fontana abbeveratoio in contrada Puzzo in Ucria;
- La fontana  abbeveratoio presente a Castell’Umberto;
- La fontana  abbeveratoio presente a Sinagra;
- La fontana  abbeveratoio presente a  Milazzo;
- La fontana  abbeveratoio presente a Tortorici; e tante altre opere.
Questi lavori in pietra sono manufatti che non solo abbelliscono, classificano e donano bellezza alle antiche casa ma ne determinano l’armonia e la bellezza dell’insieme al nostro territorio ucriese,  che ne è testimone.
Oltre ai portali, venivano eseguiti i davanzali, le cornici alle finestre, le soglie alle porte, i gradini, le balaustre. Tutto doveva essere di pietra, più o meno pregiata a secondo della disponibilità finanziaria del committente.
Si passava dal granito, al marmo, alla pietra arenaria, comunque, la casa o il palazzo assumeva un aspetto più o meno gradevole, a seconda, non solo dei motivi della lavorazione, ma anche da come le pietre erano lavorate, dall’abilità di chi le scalpellava. Questo è un dei mestieri più antichi (già gli egizi si avvalevano dell’opera di questi artigiani).
Ma gli scalpellini non si limitavano solo a costruire opere per l’edilizia, ma anche tutt’una serie di manufatti per l’uso più disparato: dalla cucina, all’erboristeria, alle tintorie, agli oleifici. Mortai, pestelli, macine, vasche e vaschette, abbeveratoi per animali, canali di scolo, bacili di raccolta erano normalmente di pietra e di usuale necessità.
Naturalmente, anche in questo caso c’erano scalpellini più abili e quelli più “pasticcioni”, ma l’abilità degli uni e degli altri si veniva presto a conoscere, determinando anche le scommesse.
Gli attrezzi principali del lavoro erano la squadra per definire gli spigoli, tutt’una serie di scalpelli perfettamente affilati e di buon materiale acciaioso, mazze e mazzuoli che venivano di volta in volta usati, secondo la specificità del lavoro.
Sempre fra questi lavoratori vanno ricordati i cavatori di pietra, che oltre a estrarre la materia prima del suolo, la preparavano in blocchi per la futura lavorazione. Sia gli scalpellini che i cavatori erano soggetti agli stessi inconvenienti fisici alle mani, ma soprattutto si ammalavano di asma bronchiale, per la grande quantità di polvere che respiravano durante la loro vita.
Oggi di " artisti - scalpellini" ne sono rimasti ben pochi, uno dei più apprezzati, a livello locale, è Salvatore Vinciullo.

"Quando l'abilità di un MASTRO trasforma "le pietre" in opere d'ARTE".




- Gruppo di Scalpellini ucriesi - 


Gli Attrezzi


Vinciullo Salvatore - Mastro Scalpellino di Ucria 

SICILIA: TERRA DEI CICLOPI

SICILIA: TERRA DEI CICLOPI
- Valentina Faranda -
La mitologia greca ha generato e ci ha tramandato tutta una serie di figure fantastiche, alcune delle quali nascono da una fervida immaginazione, altre, invece traggono spunto da racconti di viaggiatori e rispecchiano una realtà ricca di specie di animali oggi scomparse.
Uno dei luoghi, particolarmente amati, da poeti e dall’immaginario antico è la Sicilia. Da sempre un crogiuolo di civiltà e culture diverse che hanno contribuito alla nascita e alla propagazione di miti e leggende che la riguardano da vicino, come nel caso della leggenda dei ciclopi, fantasiosi giganti con un solo occhio al centro della fronte.
Già Tucidide, grande storico dell’antichità  menziona Ciclopi e Lestrigoni come i più antichi abitanti dell’isola, ma li relega al mondo del mito e dell’invenzione poetica più che alla dimensione del racconto storico.
Ed è proprio all’invenzione poetica, ad  una delle più conosciute opere dell’antichità greca, l’Odissea, che risale la leggenda più conosciuta di questi giganti.
Omero narrava di Odisseo, un eroe greco che, in seguito ad una tempesta, approdò nella terra dei Ciclopi, una terra che Tucidide, e con lui i principali autori  greci e latini,  identificarono proprio con la Sicilia.
Sebbene la mitologia dei ciclopi sia dai più considerata favolistica e frutto dell’immaginario dell’epoca, non è da escludere che tale immaginario sia stato influenzato da racconti su specie di animali realmente esistite ed oggi estinte. Di recente, infatti, storici e paleontologi hanno avanzato la teoria che antichi ritrovamenti di resti fossili di dinosauri e di altre specie estinte abbiano influenzato l’elaborazione fantastica di mitiche creature, ipotizzando quindi che giganti e mostri della mitologia greca non siano totalmente frutto dell’ immaginazione, ma della realtà storica, in quanto collegabili all’esistenza di animali preistorici.
In particolare la credenza che la Sicilia sia stata la terra dei Ciclopi sarebbe dovuta al ritrovamento, da parte degli antichi, di resti fossili di elefanti nani: il cranio di questi animali, più grande di quello umano, provvisto al centro di un foro proboscidale, sarebbe stato scambiato per una cavità orbitale e attribuito pertanto ad esseri giganteschi con un solo occhio in fronte: un esemplare di questo genere, classificato come elephas mnaidriensis, è custodito nel museo dell’Istituto di geologia di Palermo.
Estinti ben prima dell’arrivo dell’uomo, questi pachidermi lasciarono come sola traccia del loro passaggio le loro ossa fossili che si ritrovano in gran numero nelle grotte sparse per la Sicilia.  Probabilmente, i primi abitanti dell’isola ritrovarono all’interno di tali grotte questi strani crani che presentavano un grande foro frontale che credettero essere un’enorme cavità orbitale e che invece non era altro che la sede in cui si innestava la proboscide; le grandi ossa trovate assieme a questi teschi fecero nascere l’idea di individui di grandi dimensioni, veri e propri giganti.
Inoltre è probabile che fenomeni naturali, come quelli eruttivi e sismici, propri dei crateri vulcanici, numerosi nell’isola, siano stati visti come l’effetto delle attività tipiche di questi giganti.
Da qui l’elaborazione del mito di un essere gigantesco con un occhio solo, dalla forza smisurata, un abitante delle grotte: il Ciclope.
Ha un certo fascino vedere come anche le realtà più fantasiose, quelle che mai crederesti che abbiano un fondamento reale, nascano da qualcosa di effettivamente reale.
Sono tanti i racconti di esseri mitologici, creature mostruose, buone o cattive, le cui storie sono il frutto di fatti reali, rielaborati secondo la cultura di quei popoli che ce le hanno tramandate e che spesso noi accogliamo senza nemmeno chiederci da dove nascano e perché. Dato il mio interesse per il mito e le leggende ho voluto condividere con voi, una di queste storie, perché la mente umana spesso rielabora la realtà nei modi più favolosi, inquietanti e meravigliosi e mette in piedi, da un mucchio di ossa dalle forme strane, vere e proprie favole che attraversano il tempo e lo spazio e incuriosiscono e affascinano ancora oggi, popoli che oggi faticano ad immaginare.





                                  

UNA DIFESA PER LA VITA

UNA DIFESA PER LA VITA
- Melania Frontino -
Quando una spietata personalità si pone al servizio di un'irrazionalità assassina, vile e meschina, ecco che un pericolo è in agguato, emerge dagli abissi di un'infima interiorità esplodendo prepotentemente in violenza.
La conclusione di tale convulso fenomeno sarà sempre la medesima: una dignità calpestata, un'integrità fisica compromessa, l'esistenza di una vita distrutta.
In questa eterna lotta tra il razionale e l'irrazionale, tra il normale e il patologico, tra le sane e tremende inclinazioni, la ragione sembra aver ceduto il passo all'istinto.
E’ allarmante notare come tale tragica realtà stia dilagando a macchia d'olio, è come se fossimo ritornati alla più crudele primordialità dimenticando come il rispetto per gli altri e per la legge, siano in grado di garantire una realtà ordinata e un'esistenza dignitosa, tesa alla tutela della persona umana, unica protagonista di un mondo caotico, imprevedibile e mutevole.
E’ inquietante sapere come bastano pochi secondi per sancire il "the end" di una vita, sulla base di una scelta che qualcuno crudelmente starà prendendo al posto nostro, azzardando con il nostro futuro e volendo quasi sostituirsi a dio.
Per cui due sono le possibilità che in questo match finale si prospettano ai nostri occhi: - rimanere inermi o - agire per garantire la nostra incolumità fisica, che non significa "attaccare per difendersi", ma cogliere preventivamente i segnali di un possibile atto d'aggressione e operare in maniera tale da far fallire l'atto stesso, chiaramente laddove sia possibile.
A volte sono proprio delle piccole accortezze a poterci salvare la vita, quei particolari ai quali non abbiamo mai pensato, o per meglio dire ai quali non abbiamo mai attribuito la giusta importanza, la cui noncuranza ci rende facili bersagli da poter puntare e colpire.
Credo che la più grande forma di "autotutela" sia la prevenzione,è necessario agire d'anticipo con attenzione e con una preparazione adeguata, trasformando così la debolezza in forza e la paura in coraggio.
Non potremmo mai sapere quale sarà il risultato finale,ma quanto meno avremo la consapevolezza di non esserci abbandonati ad un'inerzia cosciente e volontaria.
Tale iter formativo è importante non solo per quanto detto,ma sopratutto perché rappresenta un limite ai nostri istinti, lo stop al quale dobbiamo fermarci,  nell'eventualità che debba essere,"inevitabilmente" messa in atto un'azione di difesa.
 La risposta a tale offesa, non può e non deve trasformarsi in un atto brutale e mortale. Se così fosse andremmo a legittimare una combattività, che sarebbe solo generatrice di altro male e ciò non è mai e poi mai ammissibile.
"L'autodifesa", a differenza di quanto si possa pensare,prevede l'azione solo laddove sia legata ad una situazione di "pericolo" e di "necessità", che si ha quando non vi è altra alternativa alla quale affidarsi per potersi mettere in salvo. Ciò avviene praticando delle tecniche di bloccaggio che hanno come unico scopo quello di immobilizzare l'avversario, ponendolo in una situazione tale da permettere di fuggire e chiedere aiuto.
 Non è prevista alcuna "lesione" a carico di nessuno, proprio perché motore di tale dinamismo è l'autocontrollo che neanche una situazione di panico deve compromettere,la lucidità e la calma devono essere le guide di ciascun nostro movimento. mi è sempre stato insegnato questo,da colui il quale ha dedicato la sua vita all'autodifesa ma sopratutto al karate, credendoci anima e corpo, sfidando il tempo e le intemperie.
Solo oggi mi rendo conto dell'importanza e dell'utilità di tale disciplina non solo a livello pratico, ma sopratutto per la ricchezza di valori che ha saputo donarmi, un tesoro prezioso da custodire fedelmente.
Per cui sono ben contenta e fiera di condividere tutto questo con te, papà, per cui grazie...









BAMBINI

BAMBINI
- Angela Niosi -
Suona la campanella. I bambini confluiscono,attraverso il largo portone di vetro, nell’atrio della scuola.
Là le bidelle, gesticolando e cercando di assumere un atteggiamento minaccioso, li frenano nella loro corsa ed io, che nel frattempo ho firmato sul registro delle presenze, li osservo con un misto di tenerezza e di preoccupazione. Che giornata sarà oggi?
Torno a guardarli. Alcuni gridano e spintonano compagni, girandosi a guardare la loro reazione, altri sono assonnati e hanno sul viso una sorta di rassegnazione, altri ancora sono intimoriti dagli esuberanti e cercano rassicurazione nel mio sguardo.
Sorrido.
Si portano in spalla zaini sorprendentemente pesanti ma, forse, dentro ci sono anche le loro emozioni. Molti trascinano il trolley che poi,faticosamente,sollevano su per le scale dove vengono superati dagli altri che prima,stranamente, erano più lenti.
Si smistano nelle classi, appendono i giubbotti e lanciano gli zaini contro il muro.
E,finalmente, entrano nell’aula.
Anch’io entro con i miei.
Li guardo avviarsi ai loro banchi, dove ritrovano le cose del giorno prima, raccontarsi piccoli e grandi segreti, mostrarsi oggetti portati per stupire o per prolungare il calore di casa.
Cerco di entrare con delicatezza nel loro mondo, ricordando che il lavoro ci aspetta.”Riprenderete i vostri affari nei momenti di pausa” dico e loro, dopo una serie di un attimo ,maestra … dacci ancora un po’ di tempo … si siedono e incrociano le braccia sui banchi.
“Allora, come vi sentite oggi? Siete pronti per una nuova avventura? Avete la mente libera da affanni e ali per volare?”  “Siiii” rispondono. “Bene, prendete i vostri strumenti di lavoro, allacciate le cinture e… partiamo!”
Prima di cominciare, però, c’è sempre qualcuno che vuole parlare di sé.
“Io, oggi non sono molto in forma, mia mamma mi aspetta sempre con una mano pronta sulla mia faccia, perché secondo lei ho combinato qualcosa … Io stanotte ho sentito i miei genitori litigare … A me dicono sempre che faccio i capricci, non riescono proprio a capire che questo ,per me, è normale, non li faccio per farli arrabbiare … Io invece quando sono disubbidiente mi sento in colpa e quella è la mia punizione … A me non mi ascolta nessuno. La mamma o è al lavoro o mette a posto o è al telefono”…
Cerco di arginare il fiume di parole che,sicuramente,strariperebbe lungo tutta la giornata, cercando di dare qualche rassicurazione. Quindi, iniziamo. Ora che si sono sfogati, aprono i quaderni e fanno finta di essere pronti.
Appoggio su di loro il mio sguardo e intanto cerco, dentro di me, quelle risposte che si aspettano.
Poi penso che io imparo da loro ogni giorno qualcosa di nuovo. Vivo con essi lo stupore e la meraviglia, le emozioni tenute a freno e quelle che esplodono senza controllo.
Spalmo pennellate d’amore e penso non c’è battaglia con loro, non ci sono vincitori né vinti. Solo un cammino fatto insieme dove io li accompagno ora stringendogli forte la mano, ora sfiorandogliela.
Ogni giorno è un giorno nuovo e le risposte sono nuove ogni giorno.
“Bene,siete pronti? Oggi parleremo dell’apostrofo”.




ANGOLO DELLA GASTRONOMIA: SFINCI DI CARNEVALE

ANGOLO DELLA GASTRONOMIA: SFINCI DI CARNEVALE
Antonina Maria Orifici
È appena passato carnevale e tra risate, balli maschere, scherzi e allegria ci siamo dedicati a cucinare gli: SFINCI DI CARNEVALE.
Dolcetti fatti in casa.

Ingredienti:
- 300 gr farina;
- 100 gr burro;
- 400 gr di acqua;
- 8 uova;
- 1 pizzico di sale.
Versare in un pentolino l’acqua, una volta portata in ebollizione, insieme al burro e sale, unire tutta la farina, mescolando gli ingredienti sul fuoco con un mestolo di legno per circa 2-3 minuti fino a che il composto si staccherà dalla pentola.
 Fare raffreddare e una volta raffreddata lavorare nuovamente l’impasto con un mestolo e poi unire una alla volta le uova. Si otterrà alla fine una pastella liscia e cremosa.
Scaldare l’olio in un pentolino e friggere l’impasto versandolo con un cucchiaio.
Devono cuocere a fuoco lento se no non cuoceranno all’interno.

 Scolarli su una carta assorbente e poi farci teli con crema di ricotta o altra crema a piacere.


Informazioni Utili

Modello 730: molte novità nel 2015
Entro il 15 aprile prossimo, l’Agenzia delle entrate metterà on line, sul proprio sito internet, a disposizione di ciascun contribuente potenzialmente interessato alla presentazione del modello 730 (pensionati, lavoratori dipendenti e assimilati), una dichiarazione già compilata. Sarebbe, in verità, più vicino al vero parlare di bozza precompilata. Infatti i dati che si troveranno inseriti sono soltanto quelli attualmente recuperabili dall’Amministrazione finanziaria in maniera automatica: i redditi risultanti dalle Certificazioni uniche (l’ex modello CUD) trasmesse dai sostituti d’imposta; gli oneri deducibili/detraibili che possono essere riconosciuti in base alle informazioni trasmesse da banche, compagnie di assicurazione ed enti previdenziali (quindi, interessi passivi su mutuo ipotecario, premi per polizze vita e contro gli infortuni, contributi previdenziali), e in base a dati presenti in precedenti dichiarazioni, come nel caso delle detrazioni per ristrutturazioni edilizie o per risparmio energetico, fruibili in più anni; i versamenti effettuati; le eventuali eccedenze risultanti dalla dichiarazione dello scorso anno.
Pochi avranno la fortuna di poter semplicemente confermare la “proposta”; sono tante le informazioni necessarie alla corretta e completa compilazione della dichiarazione che il Fisco non può sapere e non acquisisce in via automatica. La stragrande maggioranza dei contribuenti avrà la necessità di apportare integrazioni e/o modifiche.
Nessuna paura, comunque, per chi è “refrattario” ai cambiamenti e per chi, non avendo dimestichezza con gli strumenti informatici, non vuole necessariamente rivolgersi a un CAF o a un intermediario per recuperare la “precompilata” approntata dall’Amministrazione. Non esiste alcun obbligo di andare a visionarla né, tanto meno, di darle seguito. Insomma, la si può ignorare del tutto, rimanendone completamente al di fuori. In alternativa alla precompilata, infatti, è possibile continuare a presentare la dichiarazione dei redditi secondo tradizione, compilando cioè gli ordinari modelli 730 o Unico Persone fisiche.
Novità, poi, quest’anno, sui termini di presentazione del 730: la scadenza, tanto per il precompilato quanto per quello “tradizionale”, è fissata al 7 luglio; scompaiono, quindi, i vecchi appuntamenti del 30 aprile, per la consegna del modello al proprio sostituto d’imposta, e del 31 maggio, per la presentazione ad un Caf o ad un professionista abilitato.

“Certificazione unica” dei redditi da lavoro”
 Debutta quest’anno la Certificazione Unica dei redditi di lavoro, con tanto di obbligo di presentazione telematica e corredo sanzionatorio. È una delle più rilevanti novità che interessano le dichiarazioni dei redditi del 2015. La nuova certificazione manda in pensione il vecchio modello CUD e attrae nella sua sfera di applicazione anche i redditi di lavoro autonomo, fino allo scorso anno certificati dal datore di lavoro in forma libera e senza l’obbligo della trasmissione telematica all’Agenzia delle Entrate. La mancanza di un termine perentorio di scadenza, peraltro, aveva portato i sostituti d’imposta tenuti all’emissione delle certificazioni a prendersela comoda con riguardo alla consegna dei modelli ai lavoratori, a tal punto che, specialmente per le certificazioni delle ritenute d’acconto agli autonomi, si arrivava a rilasciare il documento anche a ridosso della scadenza del modello UNICO. Ora, invece, l’obbligo della trasmissione telematica, unitamente alla minaccia sanzionatoria, impone una scaletta di lavoro non più modulabile nel tempo.

LA NUOVA SOCIAL CARD DISOCCUPATI
La Social Card Disoccupati è una nuova agevolazione economica che il Governo offre, a partire dal 2015, ai tanti disoccupati italiani e consiste nell’erogazione di un sostegno economico agli aventi diritto. Nello specifico si tratta di un sussidio economico, ossia un bonus, che verrà elargito nei confronti di tutti coloro i quali abbiano perso il lavoro o si trovino in uno stato di inoccupazione.
Tale beneficio è erogato solo agli aventi diritto in possesso di specifici requisiti (come essere cittadino italiano o comunitario o extracomunitario con permesso di soggiorno; essere residenti in uno dei comuni in cui è partita la sperimentazione della social card; avere un Isee in corso di validità inferiore a 3.000  euro ecc.) che presentano domanda con relativo e apposito modulo compilato presso gli sportelli di Poste Italiane. Inoltre tale bonus verrà erogato ogni due mesi a tutte quelle famiglie che presentino almeno un componente disoccupato all’interno del nucleo familiare. Su tale carta, sarà accreditato un importo che verrà erogato ogni due mesi per un periodo complessivo di un anno, che va da un minimo di 231 euro fino ad un massimo di 400 euro, definito sulla base del numero del nucleo familiare.
“La social card disoccupati è un intervento a sostegno del reddito sperimentale in quanto può essere erogata solo ai cittadini residenti in alcuni comuni d’Italia tra cui Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia e Verona già attivata dallo scorso anno. Speriamo in una estensione del diritto a tutti i comuni presenti sul territorio italiano.”
Di seguito vengono riportati gli importi mensili che spetteranno agli aventi diritto  a seconda del nucleo familiare:
-        Famiglie composte da 2 membri l’importo sarà di 231 euro;
-        Famiglie composte da 3membri l’importo sarà di 281 euro;
-        Famiglie composte da 4membri l’importo sarà di 331 euro;
-        Famiglie composte da 5 o più membri l’importo sarà di 404 euro;

Il bonus, accreditato potrà essere utilizzato dal disoccupato, per effettuare diverse operazioni di routine della vita familiare, come fare la spesa o pagare le utenze domestiche come luce e gas. L’intento è di rilasciare alle famiglie un vero e proprio bancomat, cioè una scheda a banda magnetica dove sul retro è presente un micro chip, con un codice segreto, indispensabile per poter effettuare gli acquisti e le spese della vita quotidiana che sempre più spesso le famiglie italiane hanno difficoltà ad affrontare.


COM’ERA VERDE LA MIA VALLE

COM’ERA VERDE LA MIA VALLE
- Achille Baratta –
Nel periodo estivo la mia famiglia si spostava a Pirrione, un casolato nel verde il cui magazzino delle nocciole aveva prima ospitato il baco da seta con le stalle sottostanti e l’immancabile trappeto.
Per raggiungere la nostra casa di campagna occorreva percorre un sentiero che si dipartiva dal ponte fauci attraverso la proprietà Scaglione fino alle parte bassa della nostra proprietà denominata “u zotto”.
Il viottolo aveva “u malupassu”, che costituiva in un restringimento della montagna che poi calava a picco sul torrente Rudaffi e li specialmente di notte si rischiava la vita.
Dopo tutti noccioleti di un colore verde intenso che ti abbagliava e ti costringeva a pensare che tu viaggiatore dell’ignoto ti fossi immerso nell’unico luogo possibile della tua esistenza e che su ad esso non ci fosse alternativa. Queste sensazioni di contrizioni ambientali si allentava quando ci si riposava alla fontanella sita nella parte alta du zotto e poi svaniva alla vista del caseggiato contraddistinto da un pergolato di uva fragola.
La vallata continuava contraddistinguendola con la denominazione “ a vaddi” e poi ancora più a monte “a costi u ladru”, di fronte “a vigna”  sotto Rudaffi dove il terreno era argilloso, diverso da quello di Pirrione che era sabbioso.
D’estate la nostra famiglia si ampliava di un altro membro, lo zio Bastianino che era comproprietario della casa e di alcuni terreni circostanti di proprietà dello zio Guido. Erano con mio padre, Vincenzino, tre fratelli tutti ingegneri che avevano intermezzato la loro vita professionale da ufficiali in due guerre mondiali più un periodo di prigionia in Africa.
Andare a Pirrione per mio padre Vincenzino costituiva passare un periodo di riposo solo mentale perché occorreva inseguire il progresso e la civiltà e ogni anno c’era un progetto di ammodernamento: l’acquedotto, e servizi igienici, l’allacciamento alla rete elettrica a “Pracudda”, il terrazzo con sottostante portico, la costruzione e la manutenzione delle saie e la costruzione delle briglie nei due torrenti e poi l’orto e le piante che si facevano venire da Pistoia o da Scaravatti e poi i pomodori a cuore, le melanzane e i peperoni che venivano sempre brucenti.
Ma l’orgoglio personale di mio padre era un cedro del libano che troneggiava a destra della vallata, quasi fosse li per spiare le ombre e luci di un’attività che oscillava tra la professione e quella di conduzione di un azienda agricola.
Un’altra presenza era costante, maestro Giovanni, il falegname di casa che realizzava con il nostro legno di castagni i mobili o le porte che mio padre disegnava nei minimi particolari, dalla serratura agli incastri spesso a scale reali. Poi c’erano gli orologi solari un altro aspetto dell’attività di mio padre che progettava a realizzare personalmente e poi la notte la lezione sulle stelle che apparivano nitide tra “Minucera” e “Monte Castello”.
A dirla in vero le luci di Ucria e i suoi rumori erano l’unico legame con gli altri, che poi erano i nostri amati concittadini a noi legati da un rapporto di rispetto reciproco.
Poi c’era “U pridicaturi”, il nostro uomo di fiducia, che poi, diventato vecchio, era diventato quasi mio nonno, lui raccontava le vecchie storie di paese e soprattutto accendeva il fuoco sotto u perterra e nelle giornate di pioggia si guardava la pioggia come un miracolo divino, mettendo le bacchette sui rivoli e arrostendo castagne, mele e patate un vero paradiso terrestre indescrivibile e comunicabile solo a pochi che hanno goduto di questi piaceri.
Poi le bambole di fella e fillizzi costituivano il piacere di trasformare il niente caduco in un oggetto singolare e la gioia di noi bambini.
Poi le piante di ficodindia, le ginestre e il pino, nello spazio antistante la chiesetta che sembrava non crescer mai, poi a gebbia che noi ragazzi trasformavamo in piscina con grande ira dei grandi, che probabilmente ci invidiavano.
La Rocca di Scaglione era lo zenit di un mondo da  fiaba, da li proveniva l’acqua che arrivava a casa e li si andava a fare la merenda con le provole e il pane fatto in casa.
Poi le api e il miele, mio padre era un apicoltore e faceva costruire da don Giovannino anche gli alveari moderni e ancora a sarsa e l’astrattu steso al sole con maestria e controllato almeno ogni ora, doveva venire quel rosso luccicante che era l’antidoto all’inverno.
Poi i biscotti, a marmellata e u burru e u pani pi i picciriddi e quello di crusca per i cani.
Dimenticavo di dire che noi avevamo una proprietà a Rocca di Caprileone da dove mio padre faceva venire una mucca per avere il latte fresco che veniva munta regolarmente ogni mattina.
 Un anno c’era pure un vitellino con cui io giocavo fino a quando cresciuto e infastidito dal mio accarezzamento tentò di incornarmi con mia grande meraviglia, era cresciuto e non voleva rotte le scatole, sono sicuro che aveva ragione. Poi la scuola e la città e tutto si dissolveva.
Tutto questo all’ombra di quella grande clessidra che si chiamava tempo, si dice che il tempo e la morte non aspetta nessuno ma la valle resta sempre verde a prescindere da chi la possiede perché e come il primo grande amore non si scorda mai perché anche se non lo vuoi fa parte di te e non morirà se tu non lo vorrai e io non lo voglio e scrivo per tramandare.
Senza memoria non c’è storia, ed è questo il vero motivo per cui Maria Scalisi di adopera a riportare scrivendo un tempo passato come chiave di lettura del futuro. Grazie.




A BARRACCA

A BARRACCA
- Giuseppe Salpietro -

 La “barracca”, nome non certo bello che istintivamente sembra evocare la precarietà di una struttura provvisoria, un luogo coperto ma cadente, una sorta di tugurio, talmente negativo nel suo significato letterale originario, da fare diventare giallo dalla bile un qualunque esperto di marketing del “food and beverage”.
Nel caso specifico dei diversi esercizi commerciali così denominati, ancora oggi esistenti nel territorio ucriese in grado di esprimere al meglio forti connotazioni di territorialità e genuinità, il nome sembra originariamente riconducibile alla modestia complessiva di quanto offerto al cliente, solo apparentemente lontano dalla osteria dove si bevono pasti alla buona accompagnati da ottimo vino, dalla trattoria che sembra meno popolare nel servizio, o dal ristorante nobilmente discendente dal francese “restaurer” per indicare che in quel luogo si trova ristoro.
Non sembra quindi evocare il ristoro, ma era luogo accogliente e caldo per i numerosi contadini ed allevatori di greggi al pascolo che a sera, non potendo fare ritorno al paese per le necessità del governo degli animali o per procedere già dalle prime luci dell’alba successiva ai lavori preparatori della mietitura, accontentandosi di giacigli di fortuna nelle diverse “casotte” poste tra la località Piano Campo e Floresta, si davano lì convegno per il sonoro chiacchiericcio, assolutamente inconsapevoli delle tendenze modaiole degli anni a venire che avrebbero reso partecipi i loro nipoti e pronipoti al frastuono della movida di Milano e dei suoi Navigli.
In quella vasta area, il forte terreno era prevalentemente coltivato a grano, e certo di giornate lavorative ne necessitavano un’infinità per compiere tutte le pesanti attività manuali che precedevano l’agognata mietitura di fine giugno o la semina a “spaglio” del freddo novembre.
Nelle “barracche” di un tempo, talvolta quello che oggi appare ordinario, non era contemplato. Per capire il senso della conosciuta normalità diffusa che appartiene al recente, bisognerebbe avvertire, anche solo per qualche istante, la privazione di un comunissimo ausilio. In tal senso, sarebbe sufficiente provare a staccare la corrente elettrica di casa per alcuni minuti ricreando sensazioni di intimo smarrimento. In sostanza, la corrente elettrica a monte del paese di Ucria, si fermava appena fuori le sue porte e le contrade erano solo punteggiate quà e là dalla luce fioca e “ballerina” dei lumi a petrolio. Ma l’ingegno nelle barracche come sempre suppliva alle carenze, e per superare l’oggettivo impedimento della inesistente elettrificazione che a sera faceva calare un buio pesto da “tagghiari cu cuteddu”, si posizionavano nei pochi ambienti disponibili delle bombole di gas dotate di un tubo metallico montato verticalmente sulla manopola di erogazione, alla cui sommità una garza incandescente, riparata dal venticello mediante vetri opachi, diffondeva quel minimo di luce che favoriva: le bevute di vino allungato dalla “gazzosa”, la ricerca degli accordi dei suonatori di strumenti tradizionali, il raro “schiticchio”, l’immancabile gioco delle carte e talvolta gli “strepiti”.
E che dire dell’optional che una di esse, quella del caro Sebastiano Maturi detto “ u Rizzu ”, offriva come dote unica. Tale, infatti, era il refrigerio fornito dall’acqua corrente della “biviratura” dove le bottiglie di birra Messina, di aranciata e chinotto Giuffrida e di gassosa Cucinotta, disordinatamente adagiate in una bagnarola di metallo riposta in una sorta di incavo a forma di pozzetto, si ghiacciavano naturalmente allo scorrere incessante dell’acqua fredda per il piacere dei poco esigenti ospiti.
Anche Ucria ebbe per alcuni anni la propria fabbrica di bevande gassate. Essa era ubicata nei locali dell’ex cinema di via Padre Bernardino ed i suoi prodotti erano chiamati “Monte Castello”, anticipando la voglia di identità territoriale in un chiaro richiamo evocativo al luogo di produzione.
L’abbeveratoio però, giustamente, non serviva soltanto a raffreddare le “gazzose”. Numerosi erano gli armenti che ad orario pre-determinato, come fossero orologi svizzeri, lì giungevano per dissetarsi dopo ore di arsura patita nei vicini pascoli facendo abbassare in un sol colpo a meno della metà il livello del prezioso liquido raccolto per l’incessante flusso. Immancabilmente, i ruminanti certificavano il loro passaggio, lasciando sul piccolo piazzale in cemento grezzo un “ricordo” certamente non gradito all’operoso oste-gestore e alla sua infaticabile consorte Sara. Grandi come torte nuziali a più ripiani, gli escrementi erano disseminate in ogni angolo in “quantità industriale”.
 Era come se il luogo favorisse il rilascio silenzioso, a cui puntualmente seguiva un sommario lavoro di ripristino delle condizioni antecedenti il passaggio, mediante energiche e “mirate” secchiate di acqua graziosamente risparmiata dalle assetate bestie.
Uno degli attrattori di clientela dal palato esigente era “u campanaru”, abilmente posto in bella mostra sia nelle barracche che avevano effettuato la macellazione di recente, che in tutte le macellerie al tempo numerose del paese. Erano le interiora, esposte in un tutt’uno anatomicamente ancora integro, eccetto il budellame: polmoni, fegato, milza, rognoni … ; ma non mancava, in alternativa, l’esposizione fiera come fossero trofeo di caccia, di altre parti rigonfie opportunamente agganciate anch’esse ad un resistente uncino posizionato in prossimità dell’ingresso dei locali di vendita e lasciate ondeggiare come fossero palloncini al vento. Vera festa culinaria che attirava quali commensali: api grandi quanto elicotteri ultraleggeri, mosche dal colore verdastro ed insetti vari.
Nelle barracche, talvolta si macellava autonomamente quanto necessario per i  previsti consumi degli ospiti e la carne del malcapitato “castro” veniva poi riposta, non ancora sezionata, in un capiente vano ricavato nello spesso muro riparato da una “moschiera” ad ante verticali che lo rendeva inaccessibile ai voraci sciami di insetti. Prima della “rustuta” però, non poteva mancare la quasi quotidiana visita del veterinario, annunciata da qualche colpetto rauco di clacson tipico delle vecchie utilitarie, che ne certificava lesto la salubrità disseminandola di timbri di colore blu apposti con energia in ogni singola parte.
E’ normale oggi pensare a pietanze elaborate idonee a soddisfare le mutate esigenze dei clienti, ma il menù fino a qualche anno addietro era rigorosamente unico: giardiniera, salame e provola (per i più esigenti), pane di casa e castrato arrosto.
Chiedere altro sarebbe apparso come una violazione delle autentiche vocazioni locali, offensivo e provocatorio per il gestore.
Nuvole di fumo si alzavano dense e profumate al “salmoriglio” a tutto guadagno della sapiente cottura, delle papille gustative che sollecitate procuravano una irrefrenabile deglutizione a chiaro sintomo di un atteso appagamento e dell’odore del vestiario che ne restava irrimediabilmente impregnato.
Un’arte anche quella. Rimarrà mistero perché la medesima carne, se cotta fuori dal comprensorio, pur utilizzando i medesimi profumati ingredienti nel preparare “u sammurigghiu”, non abbia mai avuto lo stesso sapore di quella cotta e consumata in loco.
E poi, come non fidarsi muti rispetto alla scritta vergata da un estroso e poliedrico artista locale, che campeggiava come motto all’ingresso della “barracca du Rizzu”:
“Se vuoi vivere lieto e sano, vieni a mangiare da Bastiano”.
Ed allora fidiamoci, anche le “barracche” hanno grandemente contribuito a creare quell’irresistibile fascino territoriale che ha fatto conoscere il territorio nebroideo ai tanti. Senza polemica, realisticamente a “panza” ha convinto più dell’arte, della cultura, delle tradizioni popolari, della memoria.

D'altronde, volendo fare una inopportuna, ma efficace similitudine, tira più … che un carro di buoi.



CHIACCHIERANDO DI MALATTIE E NON SOLO… GIORNATA DELLE MALATTIE RARE 2015

CHIACCHIERANDO DI MALATTIE E NON SOLO…
GIORNATA DELLE MALATTIE RARE 2015
- Antonella Algeri –
EURORDIS  (federazione europea di associazioni di malati attiva nel campo delle malattie rare)  ha organizzato, per il 24 febbraio, a Bruxelles, l'evento "Rari, ma reali: parliamo di malattie rare".
È possibile partecipare anche online, seguendo l'evento trasmesso in streaming e inviando eventuali domande attraverso il sito www.eurordis.org/rareeu2015. I partecipanti online possono anche partecipare alla discussione via Twitter utilizzando #RareEU2015.Giornata delle Malattie Rare 2015.
Il tema della Giornata è "Vivere con una Malattia Rara", ed è dedicato ai milioni di famiglie, amici e prestatori di cure la cui vita quotidiana è segnata da una malattia rara. Lo slogan del 2015: "giorno per giorno, mano nella mano",  fa appello alla solidarietà nei confronti di malati, loro familiari, prestatori di cure, associazioni di pazienti e professionisti del settore sanitario che, lavorando insieme, possono contribuire a migliorare la vita delle persone affette da una malattia rara e sostenere la campagna di accesso ai trattamenti, alle cure, alle risorse e ai servizi necessari.
Ed ora parliamo di: FIBROSI CISTICA  e FARMACI ORFANI
(Fonti OMAR-Osservatorio Malattie rare- e Orphanet)
La Fibrosi Cistica, detta anche mucoviscidosi, è una malattia genetica ereditaria che colpisce 1 neonato su 2.500 – 2.700; il 4% della popolazione ne è portatore sano e si registrano circa 200 nuovi casi all’anno. La Fibrosi Cistica è dunque una malattia che può essere definita rara, congenita ed evolutiva che viene trasmessa con meccanismo autosomico recessivo: per sviluppare la malattia è cioè necessario che sia il padre che la madre ne siano portatori sani. A causare la malattia è un difetto della proteina CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Conductance Regulator) localizzata nella membrana apicale delle cellule degli epiteli la cui funzione è quella di regolare gli scambi idroelettrolitici.
L'alterazione della proteina comporta un'anomalia del trasporto di sali e determina principalmente la produzione di secrezioni "disidratate": il sudore è molto ricco in sodio e cloro, il muco è denso e vischioso e tende ad ostruire i dotti nei quali viene a trovarsi. Ad essere colpiti dagli effetti della malattia sono principalmente l'apparato respiratorio, le vie aeree,  il pancreas,  il fegato, l'intestino e l'apparato riproduttivo, soprattutto nei maschi a causa dell’ostruzione dei dotti spermatici.
Questa malattia è stata oggetto nel 1993 di una legge (n. 548) chiamata ‘Disposizioni per la prevenzione e la cura della fibrosi cistica’ che pone particolare attenzione non solo alla cura e alla tutela dei malati ma anche alla diagnosi arrivando a contemplare quella prenatale. In particolare questa legge definisce la fibrosi cistica malattia ‘ad alto interesse sociale’ ed ha per questo dato mandato alle regioni di indicare ai propri servizi sanitari i criteri per adottare strategie di diagnosi precoce per tutti i neonati, per individuare i portatori sani e affinché ciascuna istituisca una centro regionale di riferimento.
Attualmente la maggior parte delle regioni utilizza come primo mezzo di diagnosi neonatale il test del sudore, in grado appunto di rilevare se c’è un’anomalia nella concentrazione dei Sali, è un test molto veloce e assolutamente non invasivo poiché prevede semplicemente l’applicazione di un cerotto. Tuttavia questo strumento da solo non è in grado di dar luogo ad una diagnosi certa e viene sempre fatto seguire da ulteriori accertamenti.
FARMACI ORFANI
Il farmaco orfano è un farmaco che potenzialmente è utile per trattare una malattia rara, ma non ha un mercato sufficiente per ripagare le spese del suo sviluppo. Si definisce, quindi, farmaco orfano perché manca l'interesse da parte delle industrie farmaceutiche ad investire su un farmaco destinato a pochi pazienti nonostante risponda ad un bisogno di salute pubblica.
Il farmaco è allora senza sponsor, cioè orfano.





I PROVERBI SICILIANI

I PROVERBI SICILIANI
- Antonina Maria Orifici –
Tra gli innumerevoli proverbi siciliani ho selezionato quelli più legati alla cucina e al buon cibo, altri vi faranno meditare con la loro saggezza popolare.
  1.       Li Guai di la pignata li sapi sapi la cucchiara ca rimina.
  2.     Accussi voli diu tu manci ed io taliu.
  3.    Lu friddu e lu pititu fannu lu mussu affrittu.
  4.     Cu arrobba pi manciari nun fa piccatu.
  5.      Aspittati e nu viniri, jiri a tavula nun manciari, jiri a lettu e nu durmiri su tri peni di moriri.
  6.      Carni fa carni, pani fa panza, vinu fa danza.
  7. TRADUZIONE
  8.       I guai della pentola li sa il cucchiaio che mescola.
  9.       Cosi vuole Dio, tu mangio ed io guardo.      Il freddo e l’appetito fanno la bocca afflitta.
  10.     Chi ruba per mangiare non fa peccato.
  11.      Aspettare e non venire andare a tavola e non mangiare, andare a letto e non dormire, sono tre pene da morire.
  12.     Carne fa carne, pane fa pancia, vino fa danza.