domenica 22 febbraio 2015
MIO NONNO ERA UN MASTRO SCALPELLINO
MIO NONNO ERA
UN MASTRO SCALPELLINO
- Maria
Scalisi –
L’abilità nelle mani di chi
conosce il proprio mestiere: Scalisi Calogero, mio nonno, mastro scalpellino di
Ucria.
Una tradizione ormai persa è quella dei maestri scalpellini.
Le nostre radici non le possiamo dimenticare, mi piace sapere e,
soprattutto, far sapere la storia, che ha formato le nostre identità culturali.
Io mio nonno non l'ho conosciuto; lui lavorava
per la ditta Puglisi di Messina e si occupava per lo più di costruzioni di centine per i ponti, e
di tutti gli elementi che compongono un ponte, e non solo.
I miei
cugini Vinciullo con il padre, anche loro abili scalpellini, hanno
costruito opere, oggi ancora visibili:
- La fontana abbeveratoio in contrada Puzzo in Ucria;
- La fontana abbeveratoio presente
a Castell’Umberto;
- La fontana abbeveratoio presente
a Sinagra;
- La fontana abbeveratoio presente
a Milazzo;
- La fontana abbeveratoio presente
a Tortorici; e tante altre opere.
Questi lavori in pietra sono manufatti che non solo abbelliscono,
classificano e donano bellezza alle antiche casa ma ne determinano l’armonia e
la bellezza dell’insieme al nostro territorio ucriese, che ne è testimone.
Oltre ai portali, venivano eseguiti i davanzali, le cornici alle
finestre, le soglie alle porte, i gradini, le balaustre. Tutto doveva essere di
pietra, più o meno pregiata a secondo della disponibilità finanziaria del
committente.
Si passava dal granito, al marmo, alla pietra arenaria, comunque, la
casa o il palazzo assumeva un aspetto più o meno gradevole, a seconda, non solo
dei motivi della lavorazione, ma anche da come le pietre erano lavorate,
dall’abilità di chi le scalpellava. Questo è un dei mestieri più
antichi (già gli egizi si avvalevano dell’opera di questi artigiani).
Ma gli scalpellini non si limitavano solo a costruire opere per
l’edilizia, ma anche tutt’una serie di manufatti per l’uso più disparato: dalla
cucina, all’erboristeria, alle tintorie, agli oleifici. Mortai, pestelli,
macine, vasche e vaschette, abbeveratoi per animali, canali di scolo, bacili di
raccolta erano normalmente di pietra e di usuale necessità.
Naturalmente, anche in questo caso c’erano scalpellini più abili e
quelli più “pasticcioni”, ma l’abilità degli uni e degli altri si veniva presto
a conoscere, determinando anche le scommesse.
Gli attrezzi principali del lavoro erano la squadra per definire gli
spigoli, tutt’una serie di scalpelli perfettamente affilati e di buon materiale
acciaioso, mazze e mazzuoli che venivano di volta in volta usati, secondo la
specificità del lavoro.
Sempre fra questi lavoratori vanno ricordati i cavatori di pietra, che
oltre a estrarre la materia prima del suolo, la preparavano in blocchi per la
futura lavorazione. Sia gli scalpellini che i cavatori erano soggetti agli stessi
inconvenienti fisici alle mani, ma soprattutto si ammalavano di asma
bronchiale, per la grande quantità di polvere che respiravano durante la loro
vita.
Oggi di " artisti - scalpellini" ne sono rimasti ben pochi,
uno dei più apprezzati, a livello locale, è Salvatore Vinciullo.
"Quando
l'abilità di un MASTRO trasforma "le pietre" in opere d'ARTE".
Gli Attrezzi |
Vinciullo Salvatore - Mastro Scalpellino di Ucria |
SICILIA: TERRA DEI CICLOPI
SICILIA:
TERRA DEI CICLOPI
-
Valentina Faranda -
La
mitologia greca ha generato e ci ha tramandato tutta una serie di figure
fantastiche, alcune delle quali nascono da una fervida immaginazione, altre,
invece traggono spunto da racconti di viaggiatori e rispecchiano una realtà
ricca di specie di animali oggi scomparse.
Uno
dei luoghi, particolarmente amati, da poeti e dall’immaginario antico è la
Sicilia. Da sempre un crogiuolo di civiltà e culture diverse che hanno contribuito
alla nascita e alla propagazione di miti e leggende che la riguardano da vicino, come nel caso della leggenda
dei ciclopi, fantasiosi giganti con un solo occhio al centro della fronte.
Già
Tucidide, grande storico dell’antichità
menziona Ciclopi e Lestrigoni come i più antichi abitanti dell’isola, ma
li relega al mondo del mito e dell’invenzione poetica più che alla dimensione
del racconto storico.
Ed
è proprio all’invenzione poetica, ad una
delle più conosciute opere dell’antichità greca, l’Odissea, che risale la
leggenda più conosciuta di questi giganti.
Omero
narrava di Odisseo, un eroe greco che, in seguito ad una tempesta, approdò
nella terra dei Ciclopi, una terra che Tucidide, e con lui i principali
autori greci e latini, identificarono proprio con la Sicilia.
Sebbene
la mitologia dei ciclopi sia dai più considerata favolistica e frutto
dell’immaginario dell’epoca, non è da escludere che tale immaginario sia stato
influenzato da racconti su specie di animali realmente esistite ed oggi
estinte. Di recente, infatti, storici e paleontologi hanno avanzato la teoria
che antichi ritrovamenti di resti fossili di dinosauri e di altre specie
estinte abbiano influenzato l’elaborazione fantastica di mitiche creature,
ipotizzando quindi che giganti e mostri della mitologia greca non siano totalmente
frutto dell’ immaginazione, ma della realtà storica, in quanto collegabili
all’esistenza di animali preistorici.
In
particolare la credenza che la Sicilia sia stata la terra dei Ciclopi sarebbe
dovuta al ritrovamento, da parte degli antichi, di resti fossili di elefanti
nani: il cranio di questi animali, più grande di quello umano, provvisto al
centro di un foro proboscidale, sarebbe stato scambiato per una cavità orbitale
e attribuito pertanto ad esseri giganteschi con un solo occhio in fronte: un
esemplare di questo genere, classificato come elephas mnaidriensis,
è custodito nel museo dell’Istituto di geologia di Palermo.
Estinti
ben prima dell’arrivo dell’uomo, questi pachidermi lasciarono come sola traccia
del loro passaggio le loro ossa fossili che si ritrovano in gran numero nelle
grotte sparse per la Sicilia. Probabilmente, i primi abitanti dell’isola
ritrovarono all’interno di tali grotte questi strani crani che presentavano un
grande foro frontale che credettero essere un’enorme cavità orbitale e che
invece non era altro che la sede in cui si innestava la proboscide; le grandi ossa
trovate assieme a questi teschi fecero nascere l’idea di individui di grandi
dimensioni, veri e propri giganti.
Inoltre
è probabile che fenomeni naturali, come quelli eruttivi e sismici, propri dei
crateri vulcanici, numerosi nell’isola, siano stati visti come l’effetto delle
attività tipiche di questi giganti.
Da
qui l’elaborazione del mito di un essere gigantesco con un occhio solo, dalla
forza smisurata, un abitante delle grotte: il Ciclope.
Ha
un certo fascino vedere come anche le realtà più fantasiose, quelle che mai
crederesti che abbiano un fondamento reale, nascano da qualcosa di
effettivamente reale.
Sono
tanti i racconti di esseri mitologici, creature mostruose, buone o cattive, le
cui storie sono il frutto di fatti reali, rielaborati secondo la cultura di
quei popoli che ce le hanno tramandate e che spesso noi accogliamo senza
nemmeno chiederci da dove nascano e perché. Dato il mio interesse per il mito e
le leggende ho voluto condividere con voi, una di queste storie, perché la
mente umana spesso rielabora la realtà nei modi più favolosi, inquietanti e
meravigliosi e mette in piedi, da un mucchio di ossa dalle forme strane, vere e
proprie favole che attraversano il tempo e lo spazio e incuriosiscono e
affascinano ancora oggi, popoli che oggi faticano ad immaginare.
UNA DIFESA PER LA VITA
UNA DIFESA PER LA VITA
- Melania Frontino -
Quando una spietata
personalità si pone al servizio di un'irrazionalità assassina, vile e
meschina, ecco che un pericolo è in agguato, emerge dagli abissi di un'infima
interiorità esplodendo prepotentemente in violenza.
La conclusione di tale
convulso fenomeno sarà sempre la medesima: una dignità calpestata, un'integrità
fisica compromessa, l'esistenza di una vita distrutta.
In questa eterna lotta
tra il razionale e l'irrazionale, tra il normale e il patologico, tra le sane e
tremende inclinazioni, la ragione sembra aver ceduto il passo all'istinto.
E’ allarmante notare
come tale tragica realtà stia dilagando a macchia d'olio, è come se fossimo
ritornati alla più crudele primordialità dimenticando come il rispetto per gli
altri e per la legge, siano in grado di garantire una realtà ordinata e
un'esistenza dignitosa, tesa alla tutela della persona umana, unica
protagonista di un mondo caotico, imprevedibile e mutevole.
E’ inquietante sapere come bastano pochi
secondi per sancire il "the end" di una vita, sulla base di una
scelta che qualcuno crudelmente starà prendendo al posto nostro, azzardando con
il nostro futuro e volendo quasi sostituirsi a dio.
Per cui due sono le
possibilità che in questo match finale si prospettano ai nostri occhi: - rimanere inermi o - agire per
garantire la nostra incolumità fisica, che non significa "attaccare per
difendersi", ma cogliere preventivamente i segnali di un possibile atto
d'aggressione e operare in maniera tale da far fallire l'atto stesso, chiaramente
laddove sia possibile.
A volte sono proprio delle piccole
accortezze a poterci salvare la vita, quei particolari ai quali non abbiamo mai
pensato, o per meglio dire ai quali non abbiamo mai attribuito la giusta
importanza, la cui noncuranza ci rende facili bersagli da poter puntare e
colpire.
Credo che la più grande
forma di "autotutela" sia la prevenzione,è necessario agire
d'anticipo con attenzione e con una preparazione adeguata, trasformando così la
debolezza in forza e la paura in coraggio.
Non potremmo mai sapere quale sarà il
risultato finale,ma quanto meno avremo la consapevolezza di non esserci
abbandonati ad un'inerzia cosciente e volontaria.
Tale iter formativo è
importante
non solo per quanto detto,ma sopratutto perché rappresenta un limite ai nostri
istinti, lo stop al quale dobbiamo fermarci, nell'eventualità che debba essere,"inevitabilmente"
messa in atto un'azione di difesa.
La risposta a tale offesa, non può e non deve
trasformarsi in un atto brutale e mortale. Se così fosse andremmo a legittimare
una combattività, che sarebbe solo generatrice di altro male e ciò non è mai e
poi mai ammissibile.
"L'autodifesa",
a differenza di quanto si possa pensare,prevede l'azione solo laddove sia
legata ad una situazione di "pericolo" e di "necessità",
che si ha quando non vi è altra alternativa alla quale affidarsi per potersi mettere
in salvo. Ciò avviene praticando delle
tecniche di bloccaggio che hanno come unico scopo quello di immobilizzare
l'avversario, ponendolo in una situazione tale da permettere di fuggire e
chiedere aiuto.
Non è prevista alcuna "lesione" a carico
di nessuno, proprio perché motore di tale dinamismo è l'autocontrollo che
neanche una situazione di panico deve compromettere,la lucidità e la calma
devono essere le guide di ciascun nostro movimento. mi è sempre stato insegnato
questo,da colui il quale ha dedicato la sua vita all'autodifesa ma sopratutto
al karate, credendoci anima e corpo, sfidando il tempo e le intemperie.
Solo
oggi mi rendo conto dell'importanza e dell'utilità di tale disciplina non solo
a livello pratico, ma sopratutto per la ricchezza di valori che ha saputo
donarmi, un tesoro prezioso da custodire fedelmente.
Per cui sono ben
contenta e fiera di condividere tutto questo con te, papà, per cui
grazie...
BAMBINI
BAMBINI
- Angela Niosi -
Suona
la campanella. I
bambini confluiscono,attraverso il largo portone di vetro, nell’atrio della
scuola.
Là le bidelle, gesticolando
e cercando di assumere un atteggiamento minaccioso, li frenano nella loro corsa
ed io, che nel frattempo ho firmato sul registro delle presenze, li osservo con
un misto di tenerezza e di preoccupazione. Che
giornata sarà oggi?
Torno
a guardarli.
Alcuni gridano e spintonano compagni, girandosi a guardare la loro reazione,
altri sono assonnati e hanno sul viso una sorta di rassegnazione, altri ancora
sono intimoriti dagli esuberanti e cercano rassicurazione nel mio sguardo.
Sorrido.
Si portano in
spalla zaini sorprendentemente pesanti ma, forse, dentro ci sono anche le loro
emozioni. Molti trascinano il trolley che poi,faticosamente,sollevano su per le
scale dove vengono superati dagli altri che prima,stranamente, erano più lenti.
Si smistano nelle
classi, appendono i giubbotti e lanciano gli zaini contro il muro.
E,finalmente, entrano
nell’aula.
Anch’io entro con
i miei.
Li guardo avviarsi
ai loro banchi, dove ritrovano le cose del giorno prima, raccontarsi piccoli e
grandi segreti, mostrarsi oggetti portati per stupire o per prolungare il
calore di casa.
Cerco
di entrare con delicatezza nel loro mondo, ricordando che il lavoro ci aspetta.”Riprenderete i vostri affari nei
momenti di pausa” dico e loro, dopo una serie di un attimo ,maestra … dacci
ancora un po’ di tempo … si siedono e incrociano le braccia sui banchi.
“Allora,
come vi sentite oggi? Siete pronti per una nuova avventura? Avete la mente
libera da affanni e ali per volare?”
“Siiii”
rispondono. “Bene, prendete i vostri
strumenti di lavoro, allacciate le cinture e… partiamo!”
Prima di
cominciare, però, c’è sempre qualcuno che vuole parlare di sé.
“Io, oggi non sono
molto in forma, mia mamma mi aspetta sempre con una mano pronta sulla mia
faccia, perché secondo lei ho combinato qualcosa … Io stanotte ho sentito i
miei genitori litigare … A me dicono sempre che faccio i capricci, non riescono
proprio a capire che questo ,per me, è normale, non li faccio per farli
arrabbiare … Io invece quando sono disubbidiente mi sento in colpa e quella è
la mia punizione … A me non mi ascolta nessuno. La mamma o è al lavoro o mette
a posto o è al telefono”…
Cerco di arginare
il fiume di parole che,sicuramente,strariperebbe lungo tutta la giornata,
cercando di dare qualche rassicurazione. Quindi, iniziamo. Ora che si sono
sfogati, aprono i quaderni e fanno finta di essere pronti.
Appoggio
su di loro il mio sguardo e intanto cerco, dentro di me, quelle risposte che si
aspettano.
Poi penso che io
imparo da loro ogni giorno qualcosa di nuovo. Vivo con essi lo stupore e la
meraviglia, le emozioni tenute a freno e quelle che esplodono senza controllo.
Spalmo pennellate
d’amore e penso non c’è battaglia con loro, non
ci sono vincitori né vinti. Solo un cammino fatto insieme dove io li
accompagno ora stringendogli forte la mano, ora sfiorandogliela.
Ogni
giorno è un giorno nuovo e le risposte sono nuove ogni giorno.
“Bene,siete
pronti? Oggi parleremo dell’apostrofo”.
ANGOLO DELLA GASTRONOMIA: SFINCI DI CARNEVALE
ANGOLO DELLA
GASTRONOMIA: SFINCI DI CARNEVALE
Antonina Maria
Orifici
È appena passato carnevale e tra risate, balli maschere,
scherzi e allegria ci siamo dedicati a cucinare gli: SFINCI DI CARNEVALE.
Dolcetti fatti in casa.
Ingredienti:
- 300 gr farina;
- 100 gr burro;
- 400 gr di acqua;
- 8 uova;
- 1 pizzico di sale.
Versare in un pentolino l’acqua, una volta portata in
ebollizione, insieme al burro e sale, unire tutta la farina, mescolando gli
ingredienti sul fuoco con un mestolo di legno per circa 2-3 minuti fino a che
il composto si staccherà dalla pentola.
Fare raffreddare e
una volta raffreddata lavorare nuovamente l’impasto con un mestolo e poi unire
una alla volta le uova. Si otterrà alla fine una pastella liscia e cremosa.
Scaldare l’olio in un pentolino e friggere l’impasto
versandolo con un cucchiaio.
Devono cuocere a fuoco lento se no non cuoceranno
all’interno.
Scolarli su una
carta assorbente e poi farci teli con crema di ricotta o altra crema a piacere.
Informazioni Utili
Modello
730: molte novità nel 2015
Entro il 15 aprile prossimo,
l’Agenzia delle entrate metterà on line, sul proprio sito internet, a
disposizione di ciascun contribuente potenzialmente interessato alla
presentazione del modello 730 (pensionati, lavoratori dipendenti e assimilati),
una dichiarazione già compilata. Sarebbe, in verità, più vicino al vero parlare
di bozza precompilata. Infatti i dati che si troveranno inseriti sono soltanto
quelli attualmente recuperabili dall’Amministrazione finanziaria in maniera
automatica: i redditi risultanti dalle Certificazioni uniche (l’ex modello CUD)
trasmesse dai sostituti d’imposta; gli oneri deducibili/detraibili che possono
essere riconosciuti in base alle informazioni trasmesse da banche, compagnie di
assicurazione ed enti previdenziali (quindi, interessi passivi su mutuo
ipotecario, premi per polizze vita e contro gli infortuni, contributi
previdenziali), e in base a dati presenti in precedenti dichiarazioni, come nel
caso delle detrazioni per ristrutturazioni edilizie o per risparmio energetico,
fruibili in più anni; i versamenti effettuati; le eventuali eccedenze
risultanti dalla dichiarazione dello scorso anno.
Pochi avranno la fortuna di poter
semplicemente confermare la “proposta”; sono tante le informazioni necessarie
alla corretta e completa compilazione della dichiarazione che il Fisco non può
sapere e non acquisisce in via automatica. La stragrande maggioranza dei
contribuenti avrà la necessità di apportare integrazioni e/o modifiche.
Nessuna paura, comunque, per chi è
“refrattario” ai cambiamenti e per chi, non avendo dimestichezza con gli
strumenti informatici, non vuole necessariamente rivolgersi a un CAF o a un
intermediario per recuperare la “precompilata” approntata dall’Amministrazione.
Non esiste alcun obbligo di andare a visionarla né, tanto meno, di darle
seguito. Insomma, la si può ignorare del tutto, rimanendone completamente al di
fuori. In alternativa alla precompilata, infatti, è possibile continuare a
presentare la dichiarazione dei redditi secondo tradizione, compilando cioè gli
ordinari modelli 730 o Unico Persone fisiche.
Novità, poi, quest’anno, sui termini
di presentazione del 730: la scadenza, tanto per il precompilato quanto per
quello “tradizionale”, è fissata al 7 luglio; scompaiono, quindi, i vecchi
appuntamenti del 30 aprile, per la consegna del modello al proprio sostituto
d’imposta, e del 31 maggio, per la presentazione ad un Caf o ad un
professionista abilitato.
“Certificazione
unica” dei redditi da lavoro”
Debutta quest’anno la Certificazione
Unica dei redditi di lavoro, con tanto di obbligo di presentazione telematica e
corredo sanzionatorio. È una delle più rilevanti novità che interessano le
dichiarazioni dei redditi del 2015. La nuova certificazione manda in pensione
il vecchio modello CUD e attrae nella sua sfera di applicazione anche i redditi
di lavoro autonomo, fino allo scorso anno certificati dal datore di lavoro in
forma libera e senza l’obbligo della trasmissione telematica all’Agenzia delle
Entrate. La mancanza di un termine perentorio di scadenza, peraltro, aveva
portato i sostituti d’imposta tenuti all’emissione delle certificazioni a
prendersela comoda con riguardo alla consegna dei modelli ai lavoratori, a tal
punto che, specialmente per le certificazioni delle ritenute d’acconto agli
autonomi, si arrivava a rilasciare il documento anche a ridosso della scadenza
del modello UNICO. Ora, invece, l’obbligo della trasmissione telematica,
unitamente alla minaccia sanzionatoria, impone una scaletta di lavoro non più
modulabile nel tempo.
LA NUOVA SOCIAL CARD DISOCCUPATI
La Social Card Disoccupati è una
nuova agevolazione economica che il Governo offre, a partire dal 2015, ai tanti
disoccupati italiani e consiste nell’erogazione di un sostegno economico agli
aventi diritto. Nello specifico si tratta di un sussidio economico, ossia un
bonus, che verrà elargito nei confronti di tutti coloro i quali abbiano perso
il lavoro o si trovino in uno stato di inoccupazione.
Tale beneficio è erogato solo agli aventi diritto in possesso di specifici requisiti (come essere cittadino italiano o comunitario o extracomunitario con permesso di soggiorno; essere residenti in uno dei comuni in cui è partita la sperimentazione della social card; avere un Isee in corso di validità inferiore a 3.000 euro ecc.) che presentano domanda con relativo e apposito modulo compilato presso gli sportelli di Poste Italiane. Inoltre tale bonus verrà erogato ogni due mesi a tutte quelle famiglie che presentino almeno un componente disoccupato all’interno del nucleo familiare. Su tale carta, sarà accreditato un importo che verrà erogato ogni due mesi per un periodo complessivo di un anno, che va da un minimo di 231 euro fino ad un massimo di 400 euro, definito sulla base del numero del nucleo familiare.
Tale beneficio è erogato solo agli aventi diritto in possesso di specifici requisiti (come essere cittadino italiano o comunitario o extracomunitario con permesso di soggiorno; essere residenti in uno dei comuni in cui è partita la sperimentazione della social card; avere un Isee in corso di validità inferiore a 3.000 euro ecc.) che presentano domanda con relativo e apposito modulo compilato presso gli sportelli di Poste Italiane. Inoltre tale bonus verrà erogato ogni due mesi a tutte quelle famiglie che presentino almeno un componente disoccupato all’interno del nucleo familiare. Su tale carta, sarà accreditato un importo che verrà erogato ogni due mesi per un periodo complessivo di un anno, che va da un minimo di 231 euro fino ad un massimo di 400 euro, definito sulla base del numero del nucleo familiare.
“La social card disoccupati è un intervento a sostegno del
reddito sperimentale in quanto può essere erogata solo ai cittadini residenti
in alcuni comuni d’Italia tra cui Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova,
Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia e Verona già attivata dallo
scorso anno. Speriamo in una estensione del diritto a tutti i comuni presenti
sul territorio italiano.”
Di seguito vengono riportati gli
importi mensili che spetteranno agli aventi diritto a seconda del nucleo
familiare:
-
Famiglie
composte da 2 membri l’importo sarà di 231 euro;
-
Famiglie
composte da 3membri l’importo sarà di 281 euro;
-
Famiglie
composte da 4membri l’importo sarà di 331 euro;
-
Famiglie
composte da 5 o più membri l’importo sarà di 404 euro;
Il bonus, accreditato potrà essere
utilizzato dal disoccupato, per effettuare diverse operazioni di routine della
vita familiare, come fare la spesa o pagare le utenze domestiche come luce e
gas. L’intento è di rilasciare alle famiglie un vero e proprio bancomat, cioè
una scheda a banda magnetica dove sul retro è presente un micro chip, con un
codice segreto, indispensabile per poter effettuare gli acquisti e le spese
della vita quotidiana che sempre più spesso le famiglie italiane hanno
difficoltà ad affrontare.
COM’ERA VERDE LA MIA VALLE
COM’ERA VERDE
LA MIA VALLE
- Achille
Baratta –
Nel periodo estivo la
mia famiglia si spostava a Pirrione,
un casolato nel verde il cui magazzino delle nocciole aveva prima ospitato il baco da seta con le stalle
sottostanti e l’immancabile trappeto.
Per raggiungere la nostra casa di campagna occorreva
percorre un sentiero che si dipartiva dal ponte fauci attraverso la proprietà Scaglione fino alle parte
bassa della nostra proprietà denominata “u
zotto”.
Il viottolo aveva
“u malupassu”, che costituiva in un restringimento della montagna che poi
calava a picco sul torrente Rudaffi e li specialmente di notte si rischiava la
vita.
Dopo tutti noccioleti di un colore verde intenso che ti
abbagliava e ti costringeva a pensare che tu viaggiatore dell’ignoto ti fossi
immerso nell’unico luogo possibile della tua esistenza e che su ad esso non ci
fosse alternativa. Queste sensazioni di contrizioni ambientali si allentava
quando ci si riposava alla fontanella sita nella parte alta du zotto e poi
svaniva alla vista del caseggiato contraddistinto da un pergolato di uva
fragola.
La vallata
continuava contraddistinguendola con la denominazione “ a vaddi” e poi ancora più a monte “a costi u ladru”, di fronte “a
vigna” sotto Rudaffi dove il terreno era
argilloso, diverso da quello di Pirrione che era sabbioso.
D’estate la nostra famiglia si ampliava di un altro
membro, lo zio Bastianino che era comproprietario della casa e di alcuni
terreni circostanti di proprietà dello zio Guido. Erano con mio padre,
Vincenzino, tre fratelli tutti ingegneri che avevano intermezzato la loro vita
professionale da ufficiali in due guerre mondiali più un periodo di prigionia in Africa.
Andare a
Pirrione per mio padre Vincenzino
costituiva passare un periodo di riposo solo mentale perché occorreva inseguire
il progresso e la civiltà e ogni anno c’era un progetto di ammodernamento:
l’acquedotto, e servizi igienici, l’allacciamento alla rete elettrica a “Pracudda”,
il terrazzo con sottostante portico, la costruzione e la manutenzione delle
saie e la costruzione delle briglie nei due torrenti e poi l’orto e le piante
che si facevano venire da Pistoia o da Scaravatti e poi i pomodori a cuore, le
melanzane e i peperoni che venivano sempre brucenti.
Ma l’orgoglio
personale di mio padre era un cedro del libano che troneggiava a destra della vallata, quasi fosse li
per spiare le ombre e luci di un’attività che oscillava tra la professione e
quella di conduzione di un azienda agricola.
Un’altra presenza era costante, maestro Giovanni, il falegname di casa che realizzava con il nostro
legno di castagni i mobili o le porte che mio padre disegnava nei minimi
particolari, dalla serratura agli incastri spesso a scale reali. Poi c’erano
gli orologi solari un altro aspetto dell’attività di mio padre che progettava a
realizzare personalmente e poi la notte la lezione sulle stelle che apparivano
nitide tra “Minucera” e “Monte Castello”.
A dirla in
vero le luci di Ucria e i suoi rumori erano l’unico legame con gli altri, che
poi erano i nostri amati concittadini a noi legati da un rapporto di rispetto
reciproco.
Poi c’era “U
pridicaturi”, il nostro uomo di
fiducia, che poi, diventato vecchio, era diventato quasi mio nonno, lui
raccontava le vecchie storie di paese e soprattutto accendeva il fuoco sotto u perterra e nelle giornate di pioggia
si guardava la pioggia come un miracolo divino, mettendo le bacchette sui rivoli
e arrostendo castagne, mele e patate un vero paradiso terrestre indescrivibile
e comunicabile solo a pochi che hanno goduto di questi piaceri.
Poi le bambole
di fella e fillizzi costituivano il
piacere di trasformare il niente caduco in un oggetto singolare e la gioia di
noi bambini.
Poi le piante
di ficodindia, le ginestre e il pino, nello spazio antistante la chiesetta che
sembrava non crescer mai, poi a gebbia che noi ragazzi trasformavamo in piscina
con grande ira dei grandi, che probabilmente ci invidiavano.
La Rocca di
Scaglione era lo zenit di un mondo
da fiaba, da li proveniva l’acqua che
arrivava a casa e li si andava a fare la merenda con le provole e il pane fatto
in casa.
Poi le api e
il miele, mio padre era un apicoltore e
faceva costruire da don Giovannino anche gli alveari moderni e ancora a sarsa e l’astrattu steso al sole con
maestria e controllato almeno ogni ora, doveva venire quel rosso luccicante che
era l’antidoto all’inverno.
Poi i biscotti,
a marmellata e u burru e u pani pi i picciriddi e quello di crusca per i cani.
Dimenticavo di dire che noi avevamo una proprietà a Rocca
di Caprileone da dove mio padre faceva venire una mucca per avere il latte
fresco che veniva munta regolarmente ogni mattina.
Un anno c’era pure
un vitellino con cui io giocavo fino
a quando cresciuto e infastidito dal mio accarezzamento tentò di incornarmi con
mia grande meraviglia, era cresciuto e non voleva rotte le scatole, sono sicuro
che aveva ragione. Poi la scuola e la città e tutto si dissolveva.
Tutto questo all’ombra di quella grande clessidra che si
chiamava tempo, si dice che il tempo e la morte non aspetta nessuno ma la valle
resta sempre verde a prescindere da chi la possiede perché e come il primo
grande amore non si scorda mai perché anche se non lo vuoi fa parte di te e non
morirà se tu non lo vorrai e io non lo voglio e scrivo per tramandare.
Senza memoria
non c’è storia, ed è questo il
vero motivo per cui Maria Scalisi di adopera a riportare scrivendo un tempo
passato come chiave di lettura del futuro. Grazie.
A BARRACCA
A BARRACCA
- Giuseppe Salpietro -
La “barracca”, nome non certo bello che istintivamente
sembra evocare la precarietà di una struttura provvisoria, un luogo coperto ma
cadente, una sorta di tugurio, talmente negativo nel suo significato letterale
originario, da fare diventare giallo
dalla bile un qualunque esperto di marketing del “food and beverage”.
Nel caso specifico dei diversi
esercizi commerciali così denominati, ancora oggi esistenti nel territorio
ucriese in grado di esprimere al meglio forti connotazioni di territorialità e
genuinità, il nome sembra originariamente riconducibile alla modestia complessiva
di quanto offerto al cliente, solo apparentemente lontano dalla osteria dove si
bevono pasti alla buona accompagnati da ottimo vino, dalla trattoria che sembra
meno popolare nel servizio, o dal ristorante nobilmente discendente dal
francese “restaurer” per indicare che in quel luogo si trova ristoro.
Non sembra quindi evocare il ristoro, ma era luogo accogliente e caldo per i numerosi
contadini ed allevatori di greggi al pascolo che a sera, non potendo fare
ritorno al paese per le necessità del governo degli animali o per procedere già
dalle prime luci dell’alba successiva ai lavori preparatori della mietitura, accontentandosi
di giacigli di fortuna nelle diverse
“casotte” poste tra la località Piano Campo e Floresta, si davano lì convegno
per il sonoro chiacchiericcio, assolutamente inconsapevoli delle tendenze
modaiole degli anni a venire che avrebbero reso partecipi i loro nipoti e
pronipoti al frastuono della movida di Milano e dei suoi Navigli.
In quella vasta area, il forte
terreno era prevalentemente coltivato a grano, e certo di giornate lavorative
ne necessitavano un’infinità per compiere tutte le pesanti attività manuali che
precedevano l’agognata mietitura di fine giugno o la semina a “spaglio” del
freddo novembre.
Nelle “barracche” di un tempo, talvolta quello che oggi appare ordinario, non era
contemplato. Per capire il senso della conosciuta normalità diffusa che
appartiene al recente, bisognerebbe avvertire, anche solo per qualche istante,
la privazione di un comunissimo ausilio. In tal senso, sarebbe sufficiente
provare a staccare la corrente elettrica di casa per alcuni minuti ricreando
sensazioni di intimo smarrimento. In sostanza, la corrente elettrica a monte
del paese di Ucria, si fermava appena fuori le sue porte e le contrade erano
solo punteggiate quà e là dalla luce fioca e “ballerina” dei lumi a petrolio. Ma
l’ingegno nelle barracche come sempre suppliva alle carenze, e per superare l’oggettivo
impedimento della inesistente elettrificazione che a sera faceva calare un buio
pesto da “tagghiari cu cuteddu”, si posizionavano nei pochi ambienti disponibili
delle bombole di gas dotate di un tubo metallico montato verticalmente sulla
manopola di erogazione, alla cui sommità una garza incandescente, riparata dal
venticello mediante vetri opachi, diffondeva quel minimo di luce che favoriva:
le bevute di vino allungato dalla “gazzosa”, la ricerca degli accordi dei
suonatori di strumenti tradizionali, il raro “schiticchio”, l’immancabile gioco delle carte e talvolta gli
“strepiti”.
E che dire dell’optional che una di
esse, quella del caro Sebastiano Maturi detto “ u Rizzu ”, offriva come dote
unica. Tale, infatti, era il refrigerio fornito dall’acqua corrente della
“biviratura” dove le bottiglie di birra
Messina, di aranciata e chinotto Giuffrida e di gassosa Cucinotta, disordinatamente
adagiate in una bagnarola di metallo riposta in una sorta di incavo a forma di
pozzetto, si ghiacciavano naturalmente allo scorrere incessante dell’acqua
fredda per il piacere dei poco esigenti ospiti.
Anche Ucria ebbe per alcuni anni la
propria fabbrica di bevande gassate. Essa era ubicata nei locali dell’ex cinema
di via Padre Bernardino ed i suoi prodotti erano chiamati “Monte Castello”,
anticipando la voglia di identità territoriale in un chiaro richiamo evocativo
al luogo di produzione.
L’abbeveratoio però, giustamente, non
serviva soltanto a raffreddare le “gazzose”. Numerosi erano gli armenti che ad
orario pre-determinato, come fossero orologi svizzeri, lì giungevano per
dissetarsi dopo ore di arsura patita nei vicini pascoli facendo abbassare in un
sol colpo a meno della metà il livello del prezioso liquido raccolto per
l’incessante flusso. Immancabilmente, i ruminanti certificavano il loro
passaggio, lasciando sul piccolo piazzale in cemento grezzo un “ricordo”
certamente non gradito all’operoso oste-gestore e alla sua infaticabile
consorte Sara. Grandi come torte nuziali a più ripiani, gli escrementi erano disseminate
in ogni angolo in “quantità industriale”.
Era come se il luogo favorisse il
rilascio silenzioso,
a cui puntualmente seguiva un sommario lavoro di ripristino delle condizioni
antecedenti il passaggio, mediante energiche e “mirate” secchiate di acqua
graziosamente risparmiata dalle assetate bestie.
Uno degli attrattori di clientela dal palato esigente era “u campanaru”, abilmente posto in bella mostra
sia nelle barracche che avevano effettuato la macellazione di recente, che in
tutte le macellerie al tempo numerose del paese. Erano le interiora, esposte in
un tutt’uno anatomicamente ancora integro, eccetto
il budellame: polmoni, fegato, milza, rognoni … ; ma non mancava, in
alternativa, l’esposizione fiera come fossero trofeo di caccia, di altre parti
rigonfie opportunamente agganciate anch’esse ad un resistente uncino
posizionato in prossimità dell’ingresso dei locali di vendita e lasciate
ondeggiare come fossero palloncini al vento. Vera festa culinaria che attirava
quali commensali: api grandi quanto
elicotteri ultraleggeri, mosche dal colore verdastro ed insetti vari.
Nelle barracche, talvolta si
macellava autonomamente quanto necessario per i previsti consumi degli ospiti e la carne del
malcapitato “castro” veniva poi riposta, non ancora sezionata, in un capiente vano
ricavato nello spesso muro riparato da una “moschiera” ad ante verticali che lo
rendeva inaccessibile ai voraci sciami di insetti. Prima della “rustuta” però,
non poteva mancare la quasi quotidiana visita del veterinario, annunciata da
qualche colpetto rauco di clacson tipico delle vecchie utilitarie, che ne
certificava lesto la salubrità disseminandola di timbri di colore blu apposti
con energia in ogni singola parte.
E’ normale oggi pensare a pietanze elaborate idonee a soddisfare le
mutate esigenze dei clienti, ma il menù fino a qualche anno addietro era rigorosamente
unico: giardiniera, salame e provola (per i più esigenti), pane di casa e
castrato arrosto.
Chiedere altro sarebbe apparso come
una violazione delle autentiche vocazioni locali, offensivo e provocatorio per
il gestore.
Nuvole di fumo
si alzavano dense e profumate al “salmoriglio” a tutto guadagno della sapiente
cottura, delle papille gustative che sollecitate procuravano una irrefrenabile
deglutizione a chiaro sintomo di un atteso appagamento e dell’odore del
vestiario che ne restava irrimediabilmente impregnato.
Un’arte anche quella. Rimarrà mistero
perché la medesima carne, se cotta fuori dal comprensorio, pur utilizzando i
medesimi profumati ingredienti nel preparare “u sammurigghiu”, non abbia mai avuto
lo stesso sapore di quella cotta e consumata in loco.
E poi, come non fidarsi muti rispetto
alla scritta vergata da un estroso e poliedrico artista locale, che campeggiava
come motto all’ingresso della “barracca du Rizzu”:
“Se vuoi vivere lieto e sano, vieni a mangiare da Bastiano”.
Ed allora fidiamoci, anche le “barracche”
hanno grandemente contribuito a creare quell’irresistibile fascino territoriale
che ha fatto conoscere il territorio nebroideo ai tanti. Senza polemica, realisticamente a “panza” ha convinto più dell’arte,
della cultura, delle tradizioni popolari, della memoria.
D'altronde, volendo fare una inopportuna, ma efficace similitudine, tira
più … che un carro di buoi.
CHIACCHIERANDO DI MALATTIE E NON SOLO… GIORNATA DELLE MALATTIE RARE 2015
CHIACCHIERANDO DI
MALATTIE E NON SOLO…
GIORNATA DELLE MALATTIE
RARE 2015
- Antonella Algeri –
EURORDIS (federazione
europea di associazioni di malati attiva nel campo delle malattie rare) ha organizzato, per il 24 febbraio, a
Bruxelles, l'evento "Rari, ma
reali: parliamo di malattie rare".
È possibile
partecipare anche online, seguendo l'evento trasmesso in streaming e inviando
eventuali domande attraverso il sito www.eurordis.org/rareeu2015.
I partecipanti online possono anche partecipare alla discussione via Twitter
utilizzando #RareEU2015.Giornata
delle Malattie Rare 2015.
Il tema della
Giornata è "Vivere con una Malattia
Rara", ed è dedicato ai milioni di famiglie, amici e prestatori di
cure la cui vita quotidiana è segnata da una malattia rara. Lo slogan del 2015:
"giorno per giorno, mano nella
mano", fa appello alla
solidarietà nei confronti di malati, loro familiari, prestatori di cure,
associazioni di pazienti e professionisti del settore sanitario che, lavorando
insieme, possono contribuire a migliorare la vita delle persone affette da una
malattia rara e sostenere la campagna di accesso ai trattamenti, alle cure,
alle risorse e ai servizi necessari.
(Fonti
OMAR-Osservatorio Malattie rare- e Orphanet)
La Fibrosi Cistica, detta anche mucoviscidosi,
è una malattia genetica ereditaria che colpisce
1 neonato su 2.500 – 2.700; il 4% della popolazione ne è portatore sano e
si registrano circa 200 nuovi casi all’anno. La Fibrosi Cistica è dunque una
malattia che può essere definita rara, congenita ed evolutiva che viene
trasmessa con meccanismo autosomico recessivo: per sviluppare la malattia è
cioè necessario che sia il padre che la madre ne siano portatori sani. A
causare la malattia è un difetto della proteina CFTR (Cystic Fibrosis
Transmembrane Conductance Regulator) localizzata nella membrana apicale delle
cellule degli epiteli la cui funzione è quella di regolare gli scambi
idroelettrolitici.
L'alterazione della
proteina comporta un'anomalia del trasporto di sali e determina principalmente la produzione di secrezioni
"disidratate": il sudore è molto ricco in sodio e cloro, il muco è
denso e vischioso e tende ad ostruire i dotti nei quali viene a trovarsi. Ad essere
colpiti dagli effetti della malattia sono principalmente l'apparato
respiratorio, le vie aeree, il
pancreas, il fegato, l'intestino e
l'apparato riproduttivo, soprattutto nei maschi a causa dell’ostruzione dei
dotti spermatici.
Questa malattia è
stata oggetto nel 1993 di una legge (n. 548) chiamata ‘Disposizioni per la prevenzione e la cura della fibrosi cistica’
che pone particolare attenzione non solo alla cura e alla tutela dei malati ma
anche alla diagnosi arrivando a contemplare quella prenatale. In particolare
questa legge definisce la fibrosi cistica malattia ‘ad alto interesse sociale’
ed ha per questo dato mandato alle regioni di indicare ai propri servizi
sanitari i criteri per adottare strategie di diagnosi precoce per tutti i
neonati, per individuare i portatori sani e affinché ciascuna istituisca una
centro regionale di riferimento.
Attualmente la
maggior parte delle regioni utilizza come primo mezzo di diagnosi neonatale il test
del sudore, in grado appunto di rilevare se c’è un’anomalia nella
concentrazione dei Sali, è un test molto veloce e assolutamente non invasivo
poiché prevede semplicemente l’applicazione di un cerotto. Tuttavia questo
strumento da solo non è in grado di dar luogo ad una diagnosi certa e viene
sempre fatto seguire da ulteriori accertamenti.
FARMACI
ORFANI
Il farmaco orfano
è un farmaco che potenzialmente è utile per trattare una malattia rara, ma non ha un mercato sufficiente per ripagare
le spese del suo sviluppo. Si definisce, quindi, farmaco orfano perché
manca l'interesse da parte delle industrie farmaceutiche ad investire su un
farmaco destinato a pochi pazienti nonostante risponda ad un bisogno di salute
pubblica.
Il farmaco è
allora senza sponsor, cioè orfano.
I PROVERBI SICILIANI
I PROVERBI
SICILIANI
- Antonina
Maria Orifici –
Tra gli innumerevoli proverbi siciliani ho selezionato
quelli più legati alla cucina e al buon cibo, altri vi faranno meditare con la
loro saggezza popolare.
- Li Guai di la pignata li sapi sapi la cucchiara ca rimina.
- Accussi voli diu tu manci ed io taliu.
- Lu friddu e lu pititu fannu lu mussu affrittu.
- Cu arrobba pi manciari nun fa piccatu.
- Aspittati e nu viniri, jiri a tavula nun manciari, jiri a lettu e nu durmiri su tri peni di moriri.
- Carni fa carni, pani fa panza, vinu fa danza.
- TRADUZIONE
- I guai della pentola li sa il cucchiaio che mescola.
- Cosi vuole Dio, tu mangio ed io guardo. Il freddo e l’appetito fanno la bocca afflitta.
- Chi ruba per mangiare non fa peccato.
- Aspettare e non venire andare a tavola e non mangiare, andare a letto e non dormire, sono tre pene da morire.
- Carne fa carne, pane fa pancia, vino fa danza.
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