A volte penso si sia
smarrito già da anni quel legame che ritenevo indissolubile tra il Paese di
Ucria ed il suo frutto simbolo. Già, “a
nucidda”, elemento unificatore, dal punto di vista economico nei secoli
salvifico. Tutta l’economia ruotava attorno ad essa, ma anche le cadenze giornaliere,
le abitudini, le ritualità umane e financo la festa “du Signuri a Pietà”, che cade, non a caso, proprio alla conclusione
del periodo dedicato alla raccolta, quasi a suggellare un rapporto inscindibile
con la fede, con la grazia offerta a piene mani “A grazia i Diu”. Con la vita, con l’esistenza della comunità. Un
ringraziamento, non proprio mal celato per il benessere, a dire il vero
relativo, che ogni anno puntualmente scandiva con la raccolta la conclusione
del periodo estivo. Coppole, gilet, càusi
di velluto a coste grigio scuro come fossero divise, sedie di legno impagliate allineate
in quantità mai più vista sul ciglio della strada davanti e nei pressi del
“Circolo dei Combattenti”. Persone dal corpo asciutto, dal volto scavato e
dallo sguardo vigile che alternavano il sano curtigghiu con estenuanti discussioni sulla nocciola, sul suo
prezzo, sulla abbondanza o la scarsità della raccolta ultima. Gira e rigira
però, a dire il vero, sempre scarsa era stata l’annata.
Ricordo che mio padre,
quando venivano parenti o amici a trovarlo a Messina, dopo averli salutati
cordialmente e con usuale affetto, chiedeva “a quant’è a nucidda”, eppure non
viveva di questo, non confidava certo sul suo prezzo corrente. Semplicemente,
era rimasta in lui parte della sua precedente essenza, del suo essere stato,
della sua identità immutata, che si appalesava, come in tanti altri, in ogni
possibile occasione. I tanti altri, adattati in ogni parte del Paese e
all’estero al ruolo impiegatizio o operaio, ma per la pagnotta, perché nella
loro mente permaneva mai scalfito il ricordo del piacevole suono delle nocciole
che si arrotolavano, tra una palata e l’altra, sopra l’assolato “caliatore”.
Proprio nel periodo della
raccolta anche alla mia famiglia “toccava” una permanenza ad Ucria di quindici
giorni. Come non ricordare il viaggio, lo stesso tempo per raggiungere New
York. Non essendo stata realizzata ancora l’autostrada, l’autobus percorreva
lentamente la settentrionale sicula fino a Patti, e da lì, dove faceva sosta,
s’inerpicava verso San Piero Patti. Una tragedia della filmografia moderna.
L’appuntamento per molti era fissato davanti al “Bar Iolanda”, poi divenuto per
decenni Grech (oggi Florian) alle ore 14, l’abitacolo era talmente piccolo da
lasciare spazio solo ai passeggeri, mentre i bagagli venivano ordinariamente
posizionati sul tetto. Per noi, l’ora X scattava alle 14,15 davanti
all’Ospedale Regina Margherita, lesti e veloci a fare un segno con la mano appena
lo notavamo spuntare in capo al rettilineo.
Un vero viaggio in diligenza
che normalmente procurava malori inverosimili ai malcapitati passeggeri che
notoriamente non abituati alle curve si sentivano tutti male. Chi ingurgitava
pillole, chi si apprestava ad aprire il sacchetto per facilitare il vomito, chi
resisteva mostrando sul volto un pallore inusuale. Bianchi come le pezze, come
lenzuola stese al sole animate dal vento. Mi chiedo ancora come fosse possibile
che un tempo la macchina e l’autobus mietessero tante vittime. Tutti male
stavano, tutti avrebbero preferito il più tranquillo dorso “du sceccu”, ma rassegnati si aspettava che passasse il tempo
necessario che non arrivava a compimento prima delle 19.30 /20.
Da lì in poi le ritualità
immodificabili. Regole non scritte ne scandivano i tempi e le modalità di
svolgimento. Solo i saluti ai parenti ed agli amici al tempo viventi, una
visita a sera, impegnavano tanto tempo che si passava quasi senza soluzione di
continuità all’ulteriore giro per i saluti di congedo.
Ma l’asse portante di buona
parte delle argomentazioni, la regina, restava sempre lei, “a nucidda”. Anche
le difficoltà e la fatica impiegata per la sua raccolta sembravano svanire
quando dai diversi poderi all’imbrunire, i paesani facevano ritorno alle loro
case ed ai magazzini ostentando quasi, nel passare dalla “chiazza”, il copioso raccolto riposto spesso sopra il portabagagli
di scassate Fiat 600 che risultavano stracolme all’inverosimile di sacchi.
E così, affondo anch’io le mie radici
nel nocciolo, ma sfuggendo volutamente, per il momento, ai sentimenti, fornisco brevemente conto di un
appassionato studio dell’agronomo Ferdinando Alfonso denominato “Monografia sul
nocciolo”, edito a Palermo nel 1886.
In esso, uno degli aspetti che colgo attiene alle origini
del prelibato frutto, alle prime informazioni storiche a noi pervenute. E così
apprendo, che l’origine antichissima viene dimostrata da tale Carlo Vogt a
Vienna nel dicembre del 1869, quanto furono rinvenute nelle palafitte di un
grande stabilimento a Rabenhausen, in Svizzera, avanzi risalenti a seimila anni
prima.
Apprendo ancora, che i popoli più
antichi conobbero il legno del “Corilo” e
lo ritennero simbolo di riconciliazione e di pace, tant’è che il caducéo di
Mercurio era composto da un bastone tratto da un ramo di nocciolo adornato da
due ali circondate da serpenti.
Pare addirittura che i Penestrini, assediati
da Annibale, abbiano salvato le loro vite unicamente cibandosi di nocciole.
L’alberello di nocciolo, secondo le
affermazioni di Plinio, proverrebbe dall’Asia Minore dove prendeva il nome di Ponto. Da tali luoghi sarebbe stato poi
impiantato in Asia e successivamente in Grecia con il nome di Noce di Ponto. Gli elleni poi,
conquistando ed insediatisi in parecchia aree del nostro territorio, vi avrebbero
importato il nocciolo, che si sarebbe esteso principalmente nelle attuali
Toscana ed Emilia Romagna, oltre che in diverse Isole del Mediterraneo e
nell’area del napoletano dove fu conosciuto con il nome volgare di Avellano da Avellino.
Con il variare dei tempi e delle
dominazioni straniere, l’albero di nocciolo in Italia assunse nomi diversi e fu
chiamato: nocciolaro, noce pontico, avellano, nocello, nosello; al pari delle
nucole che a loro volta, venivano conosciute come: nocciole, noci pontiche,
avellane, nocelle e noselle.
Nella stessa monografia ottocentesca,
Ucria ed i suoi terreni apparivano in tutto il loro splendore produttivo, e le
piantagioni diffusissime in ogni dove, vegetavano rigogliosamente sui terreni
notoriamente infrattuosi e vallivi con pendenze accentuate ed irregolari. Nel
fornire un quadro complessivo del territorio, l’attento autore osserva che
nelle alture poi, già destinate alle essenze forestali, prevalgono i terreni
argillosi, che si “aggravano” di acqua durante l’inverno e screpolano d’estate.
Trattando dei “più belli” noccioleti di Ucria, racconta che insistono in
terreni “umosi a pendio, neri, sciolti,
freschi e profondi, quelli stessi nei quali la felce vegeta rigogliosamente e
tra essi su quelli elevati infra 800 metri sul livello del mare”. Ma non
soltanto il nocciolo al tempo rappresentava elemento di sostentamento, anche il
frutteto ad Ucria era abbastanza diffuso e bastante rispetto al modesto consumo
locale e molteplici varietà arboree si associavano alla vigna, come pure ai
fichi ( intesi volgarmente fichèri ). Fatto singolare degno di nota, è che
veniva osservata in quel periodo, una diffusa estensione di vitigni circondati
da noccioleti, in una alternanza che faceva prendere il sopravvento all’una o
all’altra varietà in ragione della morfologia del terreno e della esposizione
ai venti nordici.
Curioso è osservare, che al tempo del
prezioso studio, che risale al 1886, il
valore commerciale delle nocciole fosse in sensibile crescita di anno in anno,
tant’è che si era spinto a toccare la ragguardevole somma di ben 97,75 lire per
ciascuna salma, corrispondente a kg
174,55.
In conclusione, una approfondita
conoscenza del nostro territorio, delle sue origini e della sua pur modesta
economia non è semplice esercitazione nostalgica, ma vale per comprendere
meglio le potenzialità sopite, o talvolta soppresse, che conviene a tutti fare
riemergere in fretta se s’intende continuare un percorso da altri tracciato nei
secoli, frutto di esperienza e di fatiche. Valga come monito, se le identità,
intese come patrimonio comune si dissolvono, la lacerazione non lascia indenni.
QUANDO RITORNO AD UCRIA , E ULTIMAMENTE LO STO FACENDO SPESSO, CERCO DI CONTINUARE E MANTENERE VIVA QUESTA TRADIZIONE DELLE NOCCIOLE, PERO' ......CHE GRAN MAL DI SCHIENA ! SOLO CHI HA "RUNCATO " E RACCOLTO LE NOCCIOLE LO PUO' SAPERE . NOTO CHE GLI ANZIANI SEMBRANO , E FORSE LO SONO, IMMUNI A QUESTA SOFFERENZA, O LA CELANO IN MANIERA STRAORDINARIA.LE NOCCIOLE CHE MI PORTO A CASA , QUI AL NORD DIVENTANO TORTE E BISCOTTI DAL SAPORE INEGUAGLIABILE E LA DIFFERENZA CON ALTRI PRODOTTI SIMILI SI SENTE ....ECCOME!
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